Foto di Andrew Martin da Pixabay

Evoluzione: dalla prima cellula alle infinite forme della natura

Questo processo non è necessariamente migliorativo o peggiorativo, ma è cambiamento e adattamento.

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Evoluzione. Una parola molto conosciuta di cui però spesso sfugge il significato.
Possiamo pensare all’evoluzione come un meccanismo naturale che si è messo in moto con la nascita del primo essere vivente e che da quel momento, proprio come la vita stessa, non si è mai arrestato. Quando parliamo di evoluzione, il soggetto sono infatti gli esseri viventi e il loro modificarsi e diversificarsi nel tempo.
Il cambiamento: è proprio questa la risultante dell’evoluzione. Da un unico ancestrale essere vivente comparso miliardi di anni fa, in qualche modo ne sono discesi tutti gli altri, con una varietà di forme, colori e dimensioni che sembrano essere illimitate.

Come funziona l’evoluzione?

Ma come è possibile che partendo da una sola cellula che si duplica, si sia arrivati a generare così tanta diversità? Ciò è possibile grazie al carburante che alimenta il meccanismo evolutivo: la variabilità.
A ogni riproduzione, infatti, le mutazioni che avvengono casualmente a carico degli acidi nucleici degli organismi, rendono gli individui figli un po’ diversi gli uni dagli altri e soprattutto dai genitori.
Sarà poi l’ambiente circostante a determinare se queste mutazioni siano vantaggiose, neutrali o addirittura dannose per l’individuo che ne è portatore. Tendenzialmente, gli individui portatori delle mutazioni che conferiscono loro un maggior vantaggio all’interno dell’habitat in cui vivono, avranno anche una maggiore chance di sopravvivere e riprodursi, trasmettendo queste mutazioni alle future generazioni.
Ogni generazione, quindi, sarà composta da individui differenti rispetto a quelli della precedente, causando un cambiamento nella composizione della popolazione. Questo cambiamento nel tempo prende il nome di evoluzione.
Quando, poi, un gruppo di individui all’interno della popolazione si separa da essa e continua ad evolversi in maniera indipendente, si può avere la speciazione, con la formazione di una nuova specie distinta da quella della popolazione di partenza.

Cosa significa essere più o meno evoluti?

Ho dovuto semplificare molto i complicati meccanismi interni all’evoluzione ma è fondamentale cogliere due aspetti: il primo è che l’evoluzione, essendo un sinonimo di cambiamento biologico nel tempo, non è né migliorativa né peggiorativa. È solo e soltanto cambiamento. L’errore logico potrebbe derivare dal fatto che, visto che gli esseri viventi più adatti all’ambiente sopravvivono a discapito dei meno adatti, questo ci porti inevitabilmente ad animali sempre migliori dei precedenti. Ma è un ragionamento errato. Infatti, le caratteristiche che rendono un individuo ben adattato al suo ambiente possono non essere così vantaggiose per le future generazioni, se l’ambiente attorno a loro cambia. Quindi, come è già stato detto, non si ha un miglioramento in termini assoluti ma piuttosto un cambiamento che, a seconda dell’ambiente in cui si trova l’individuo, potrebbe rivelarsi positivo. Inoltre, non sempre un individuo portatore di caratteristiche che lo rendono ben adattato all’ambiente circostante, riesce nell’impresa di trasmettere tali caratteristiche alla prole. Questo a causa di eventi casuali che impediscono all’individuo di riprodursi oppure a eventi di rimescolamento genetico che annullano gli effetti di queste mutazioni vantaggiose.
Il secondo aspetto è che riferirsi a un essere vivente come “più evoluto”, intendendo che tale creatura sia in qualche modo superiore ad altre, è sbagliato. Evoluzione, infatti, è sinonimo di cambiamento e sostituendo, nel precedente virgolettato, la parola “evoluto” proprio con la parola “cambiato” ce ne accorgiamo immediatamente. La frase diventa infatti “più cambiato” e perde il senso elogiativo che volevamo erroneamente conferirle.
Effettivamente esistono degli esseri viventi “più evoluti”, cioè “più cambiati”. In altri termini, i più evoluti sono quegli organismi che si sono maggiormente differenziati rispetto ai loro progenitori ancestrali, che gli studiosi chiamano ancestori. Attenzione, però, a non pensare che gli organismi più evoluti siano anche i più complessi. Facciamo un esempio: sicuramente potremmo dire che i batteri sono più semplici di un qualunque vertebrato (ma anche di un qualunque invertebrato). Essi, infatti, sono organismi unicellulari privi di nucleo e con non più di qualche migliaio di geni, ma hanno dei tassi di riproduzione elevatissimi e quindi sono sempre in rapido cambiamento, adattandosi agli ambienti più disparati. Questo li ha resi piuttosto distanti dai loro ancestori, e quindi possiamo considerarli altamente evoluti. Chi oserebbe negarlo?

Perché non è corretto affermare che l’uomo è l’animale più evoluto?

Come vedete l’idea di evoluto, cioè cambiato, come migliore o superiore non ha senso in biologia.
Inoltre, anche se volessimo effettuare dei confronti tra esseri viventi, non è chiaro quale parametro sarebbe un reale indicatore di superiorità di un organismo rispetto a un altro. Le dimensioni? La forza? O l’intelligenza? Quest’ultimo parametro (tra l’altro complicatissimo da determinare e misurare) è spesso quello scelto da chi afferma che l’essere umano sia l’organismo più evoluto.
È innegabile che l’intelligenza umana sia una caratteristica assolutamente unica come grado di sofisticatezza tra gli esseri viventi. Ma non è né il fine ultimo della storia biologica, che non culmina di certo con Homo sapiens come essere superiore, né tanto meno, una caratteristica necessaria alla vita. Tantissimi esseri viventi non hanno nemmeno un cervello, eppure dominano questo pianeta da molto più tempo di noi, come i già citati batteri e le piante. Assumere arbitrariamente che l’intelligenza sia il parametro da utilizzare per un confronto definitivo tra le specie, per poi porsi sul gradino più alto del podio, è una visione antropocentrica che non ha alcun valore e significato in biologia evoluzionistica.

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