Gli antichi Romani credevano che il nome indicasse anche il destino di chi lo portava, espressione di tale convinzione la locuzione latina nomen omen, ossia “il nome è un presagio”. Per la protagonista di questa triste vicenda, un esemplare femmina di elefante asiatico battezzata “Happy”, tuttavia, il presagio di felicità sembra proprio non essere destinato a realizzarsi.
Nata libera in Thailandia, fu catturata nel 1971 all’età di un anno insieme ad altri 6 cuccioli, probabilmente del suo stesso branco, per essere venduta per soli 800 dollari – tanto il prezzo della libertà di una creatura straordinaria – al Lion Country Safary, Inc. in California dove i piccoli furono chiamati con i nomi dei personaggi di “Biancaneve e i sette nani”. Nel 1977 gli elefantini furono trasferiti in diversi circhi e zoo sparsi per gli USA; Happy, insieme a Grumpy, fu assegnata allo zoo più grande della città di New York, quello del Bronx, ove risiede ormai da 45 anni, di cui gli ultimi 16 trascorsi in totale solitudine dopo la perdita dei suoi compagni.
Per la sua liberazione si batte dal 2018 l’associazione Nonhuman Rights Project (NhRP). L’Ong sostiene che, data la sua complessità straordinaria sul piano cognitivo ed emotivo, l’elefantessa dovrebbe essere riconosciuta come “soggetto giuridico”, con diritto alla libertà fisica e che dovrebbe essere immediatamente rilasciata dalla sua “ingiusta detenzione” per poter raggiungere un santuario. A tal fine, il Progetto per i Diritti Non-umani ha invocato per il pachiderma, da ultimo dinanzi alla Corte Suprema di New York, l’Habeas Corpus, ossia il principio del diritto anglosassone che tutela l’inviolabilità personale e protegge dalle incarcerazioni ingiuste. Secondo NhRP, infatti, lo spazio in cui Happy è costretta a vivere risulta inadeguato e la condizione di isolamento dettato dalla relazione ostile con l’altra elefantessa dello zoo, Patty, rendono la sua esistenza estremamente triste e monotona come denotano le numerose stereotipie, indice di angoscia e sofferenza, che sono state riscontrate dall’osservazione del suo comportamento.
A sostegno delle proprie argomentazioni ed in particolare per dimostrare che Happy è capace di autonomia e dotata di una capacità cognitiva complessa, l’organizzazione no-profit ha portato uno studio del 2005, condotto dall’Emory University’s Yerkes National Primate Research Center, attraverso cui è stato dimostrato che l’elefantessa è in grado di riconoscere la sua immagine allo specchio. Happy è stato infatti il primo esemplare di elefante asiatico a superare il “mirror-self recognition test” considerato il più grande indicatore di auto-consapevolezza che ne ha confermato la capacità di riconoscersi come individuo unico e di avere un proprio pensiero.
Nonostante tali evidenze ed il parere di numerosi esperti, l’associazione animalista, non è riuscita a persuadere la Corte che ha respinto il riconoscimento di persona giuridica: all’animale non sono infatti stati riconosciuti i diritti umani fondamentali e, quindi, la sua lunga prigionia non è stata ritenuta illegale; tale decisione ha determinato il mancato rilascio dell’elefantessa che, continuando ad essere riconosciuta come una proprietà del Bronx Zoo, non potrà raggiungere uno dei due santuari per elefanti degli Stati Uniti pronti ad accoglierla.
In particolare, il giudice capo della Corte d’Appello dello Stato di New York, Janet DiFiore, nella decisione che ha ottenuto una maggioranza di 5 voti (a fronte di 2 contrari) ha argomentato:
«Pur non mettendo in discussione le capacità degli elefanti, rigettiamo gli argomenti portati dai querelanti. Habeas Corpus è un mezzo procedurale volto a garantire i diritti di libertà degli esseri umani trattenuti illegalmente, non degli animali non umani».
I due giudici, Jenny Rivera e Rowan D. Wilson, che hanno espresso il parere di minoranza, dichiarandosi quindi a favore del riconoscimento dello status di “persona” per Happy, hanno chiarito che «la sua cattività è intrinsecamente ingiusta e disumana», essa rappresenta un «affronto alla società civile e per ogni giorno in cui resta prigioniera anche noi perdiamo qualcosa».
Nonhuman, delusa dal parere di maggioranza, ha elogiato, invece, i giudici di minoranza dichiarando di intravedere nei due dissensi «un segno importante di speranza per un futuro in cui gli elefanti non debbano più soffrire come è capitato a Happy e in cui i diritti dei non umani siano tutelati alla pari di quelli degli umani».
Se la Corte di Appello dello Stato di New York si fosse pronunciata favorevolmente, la decisione avrebbe costituito un precedente giurisprudenziale rilevante per altre azioni a tutela di animali detenuti in cattività; la stessa giudice DiFiore ha dichiarato che una decisone a favore di Happy avrebbe determinato un «enorme impatto destabilizzante» sulla società.
Appare, invece, del tutto auspicabile e quanto più impellente la necessità di un «enorme impatto destabilizzante», che risvegli finalmente le coscienze da quel torpore di ingiustizia legalizzata a cui si sono ormai abituate: solo una logica che reifica gli altri animali, che li considera meri oggetti di cui disporre per soddisfare i propri bisogni ed interessi, può tollerare la cattività. Animali asserviti ai desideri degli umani, costretti ad una vita di patimenti e silenziosa sofferenza, resi strumenti di diletto privati della propria natura e brutalizzati nella propria integrità di esseri senzienti.
Se l’unico modo per garantire una vita degna agli animali è attribuire loro diritti riconosciuti solo agli umani, la strada da percorrere è ancora assai lunga: si tratta di una logica perniciosa quella che porta a considerare gli animali non come meritevoli di tutela in quanto portatori di diritti propri, ma solo attraverso l’attribuzione ad essi di diritti umani.
Non è più rinviabile, anche a fronte dei progressi scientifici ed etologici perseguiti, una nuova idea di giustizia che travalichi i confini di specie e sia realmente inclusiva.
Non si può più fingere di non vedere l’elefante nella stanza.