Cosa accade se il veterinario sbaglia un intervento? Un principio generale noto a tutti è che chi produce un danno deve risarcire il danneggiato. A questa logica non sfugge il medico veterinario che sbaglia un intervento e causa un peggioramento della salute del paziente, che sarà tenuto a risarcire il danno che ha prodotto, per non aver adempiuto correttamente la propria obbligazione. Trattandosi di responsabilità contrattuale, per provarla sarà sufficiente dimostrare di aver subito il danno. Definita la regola generale, va anche detto che vi sono delle eccezioni, che vedremo in seguito.
Prima di tutto, va premesso che anche i veterinari come altre categorie di professionisti sono obbligati per legge a dotarsi di un’assicurazione per la responsabilità civile: ciò significa che qualora il veterinario ammetta subito l’errore, sarà sufficiente aprire un sinistro con la sua assicurazione, che ne risponderà direttamente. In caso contrario (o qualora il risarcimento riconosciuto dall’assicurazione sia troppo basso) sarà invece necessario consultarsi con un legale per stabilire come meglio procedere.
Vorrei approfittare di una recente innovativa sentenza del Tribunale di Genova per riassumere alcuni punti fondamentali. Premetto che questo articolo non si sostituisce a un parere professionale reso su un caso specifico ma vuole solo chiarire alcuni concetti di base, pertanto consiglio a chiunque voglia far valere i propri diritti di rivolgersi sempre a un legale, che potrà fornire indicazioni precise e puntuali, ritagliate sul singolo caso. Inoltre, per garantire la massima chiarezza e leggibilità, eviterò di fornire citazioni giurisprudenziali.
Chiarisco anche che nella mia esperienza ho notato che è anche importantissimo l’esame della cartella clinica da parte di un consulente (un altro veterinario, meglio se di un’altra città) che può aiutare a capire “cosa è andato storto”.
Innanzitutto, il codice deontologico dei veterinari prevede l’obbligo di fornire informazioni precise sulle condizioni di salute dell’animale, sui trattamenti necessari, precisando i rischi, i costi e i benefici dei possibili percorsi diagnostici e terapeutici adottabili (art. 32). Inoltre, i veterinari devono acquisire il consenso informato prima di intraprendere qualsiasi attività sul paziente (art. 33). Quando forniamo il consenso — sempre che il veterinario sia stato corretto e ci abbia effettivamente fornito tutte queste informazioni — dovremmo essere perfettamente consapevoli dei rischi che corre l’animale ed averli accettati.
Va anche precisato che le regole del codice civile pongono di fatto un freno alle richieste di risarcimento, limitando la responsabilità dei professionisti, i quali nelle ipotesi in cui la prestazione richiesta è da considerarsi particolarmente complessa, rispondono solo per dolo o colpa grave (notevole negligenza o imperizia). Posto in maniera più semplice, questo vuol dire che il veterinario che riesce a dimostrare che l’intervento era complesso (non di routine) e che nell’eseguirlo ha adottato tutte le regole tecniche della professione non risponderà dell’eventuale danno (morte, malattia, patologia o altra perdita di funzionalità dell’animale), perché avrà dato prova di aver fatto tutto quanto necessario per prevenirlo ed evitarlo. In queste ipotesi, l’evento dannoso rientra in quel margine di insuccesso statisticamente inevitabile che accompagna ogni attività medica e non nell’imperizia o negligenza del veterinario (o dei membri dell’equipe) che ha eseguito l’intervento. In parole povere, la medicina veterinaria non è una scienza esatta e non vi sono garanzie assolute di successo.
Questo principio vale per gli interventi programmati così come quelli d’urgenza. Per quanto riguarda questi ultimi, le ipotesi in cui è molto difficile ipotizzare una responsabilità del veterinario sono quelle di gravi patologie in stato avanzato, in cui le possibilità di successo sono poche ma il proprietario correttamente informato decide di fornire l’assenso e si procede comunque all’intervento (es. asportazione di una massa tumorale), perché vi è l’urgenza di tentare di salvare la vita del paziente e non vi sono alternative.
Per quanto riguarda, invece, gli interventi programmati e non complessi, è molto più semplice valutare profili di responsabilità del veterinario. In questi caso, però, se il professionista riesce a dimostrare di aver eseguito l’intervento secondo le linee guida e le leges artis — ossia le buone pratiche e regole tecniche che sovrintendono all’esercizio della professione — si presume che abbia adempiuto correttamente al proprio compito e l’eventuale esito infausto non sarà dipeso da una sua colpa. In parole semplici: se l’intervento è stato eseguito correttamente (secondo il “protocollo” scientifico in uso) e non vi sono stati errori, né leggerezze, né negligenze nella fase della preparazione (es. omissione di esami rilevanti, lettura errata dei risultati, eccessivo dosaggio dell’anestesia) né nel decorso post-operatorio (es. abbandono per la notte, monitoraggio incompleto, assenza di medicazioni, ma anche indicazioni sbagliate al proprietario prima delle dimissioni) il veterinario non potrà essere ritenuto responsabile della morte o dei danni arrecati all’animale. Questo anche se si trattava di intervento routinario e quindi semplice, perché in ogni atto operatorio vi è un certo margine di rischio statisticamente rilevante.
Il fulcro di tutto è quindi nell’individuazione dell’errore nella catena di decisioni e azioni svolte dal veterinario. In termini giuridici, occorre ricercare il nesso causale ossia l’antecedente che ha determinato l’evento morte o il danno provocato all’animale, attraverso una verifica che risponda alla domanda: «se il veterinario non avesse fatto (o avesse fatto) questa azione, l’animale sarebbe vivo?». L’errore potrebbe anche essere di tipo omissivo: ad esempio il caso del medico che dopo la visita e la lettura degli esami non riconosce la patologia.
Fatte queste doverose premesse, vediamo cosa accade se il veterinario non ha eseguito scrupolosamente l’intervento per grave negligenza o imperizia ed è quindi tenuto a risarcire il danno. Va precisato che per la legge il danneggiato non è l’animale ma l’umano (proprietario o detentore) che ha richiesto l’intervento. Questo poiché gli animali sono ancora considerati alla stregua degli oggetti, quindi per il risarcimento dei danni che subiscono si applicano agli stessi le stesse regole previste ad esempio per i sinistri stradali o per i danni condominiali. Che piaccia o no, nonostante siano considerati “esseri senzienti” dal Trattato di Lisbona, per la legge civile gli animali rientrano nella stessa categoria delle cose inanimate, come i telefoni cellulari o le automobili.
Una regola fondamentale in caso di risarcimento di danni a cose di propria proprietà è che l’entità del risarcimento va commisurata al valore del bene danneggiato, per evitare che il danneggiato possa arricchirsi a spese del danneggiante. Per questa ragione, in caso di sinistro stradale che comporti la completa distruzione di un veicolo, l’assicurazione di norma (salvo clausole diverse, a cui corrispondono premi più alti) risarcisce nei limiti del valore di mercato del veicolo al momento dell’incidente e non l’importo necessario per acquistarne uno nuovo.
Quali sono le conseguenze di questo principio? Se il risarcimento va quantificato in base al “valore” dell’animale, da intendersi come puro e semplice valore venale, non sarebbe possibile richiedere un risarcimento per un cane adottato in canile, che non ha un valore di mercato. Per meglio chiarire: il veterinario sarebbe comunque tenuto a rimborsare il costo dell’operazione non eseguita correttamente (o non potrebbe pretenderne il pagamento) ma al danneggiato (il proprietario) non spetterebbe alcun risarcimento, proprio perché il suo “bene” (il cane) non ha alcun valore di mercato. E se il proprietario decide di farlo operare, tanto peggio per lui. Oltretutto, anche per i cani di razza si pongono dei problemi, perché anche se hanno un valore di mercato, bisogna dimostrare che si è effettivamente speso un certo importo per l’acquisto e con il tempo il valore di mercato del cane tende a ridursi e con esso il possibile risarcimento. Chiaramente ciò che abbiamo detto per i cani vale anche per i gatti e altri animali.
Questa impostazione è stata purtroppo seguita in diverse pronunce, anche recenti. Gli uniche sporadiche eccezioni riguardano il caso della morte dell’animale: in queste ipotesi, alcuni giudici hanno riconosciuto il danno in capo al proprietario per la perdita dell’animale, quale conseguenza dell’imperizia del veterinario. La morte del proprio amato animale domestico, provocando un forte shock e patema d’animo, è stata considerata tale da configurare un vero e proprio danno morale risarcibile.
Per questo è particolarmente interessante una recentissima sentenza del Tribunale di Genova, che è giunta alle stesse conclusioni seguite fino ad ora in caso di morte anche in una ipotesi in cui il cane “vittima” del veterinario inesperto è fortunatamente rimasto in vita. Il caso riguardava Yuma, una meticcia preso da un canile, che a causa di un intervento non eseguito correttamente aveva subito la lesione del nervo sciatico. La salute di Yuma era costantemente peggiorata, tanto che era necessario portarla fuori in braccio per farle fare i bisogni, non riuscendo più camminare in modo normale.
La tesi del veterinario era appunto che il cane non avesse alcun valore e che non era quindi possibile alcun risarcimento, nonostante fosse avvenuto il “danneggiamento”. L’avvocato del proprietario di Yuma aveva puntato invece sul peggioramento della qualità di vita del padrone, che non potrà più fare le passeggiate che amava fare con l’animale. Il giudice ha deciso di dargli ragione, valorizzando l’elemento della relazione affettiva instaurata tra il cane e il padrone Per questo non soltanto ha condannato il veterinario a risarcire i costi necessari per rimediare all’operazione andata male ma anche all’ulteriore risarcimento di 3.500 euro per il danno morale, poiché le limitazioni motorie che Yuma avrà in futuro hanno pregiudicato il progetto di Paola di godere della compagnia di Yuma, oltre a procurarle “ansia” e “patimento”.
Per il giudice, il fatto stesso che la proprietaria abbia speso migliaia di euro per alleviare le sofferenze di Yuma rende evidente l’obiettivo di instaurare con lei «una relazione durevole negli anni» e di farla entrare nel suo «progetto di vita familiare».
Seppure per far venire meno l’odiosa classificazione degli animali come oggetti bisogna attendere che si muova il Parlamento come è successo in Francia, tramite sentenze simili viene finalmente riconosciuto che agli animali non sono applicabili le regole adottate per gli oggetti e che il rapporto di affezione che si crea tra questi e gli umani merita una importante considerazione.
Si tratta di una giurisprudenza innovativa, come quella sull’affidamento degli animali in caso di separazione, che speriamo possa presto essere fatta propria dalla legge, per dare certezza alla materia e permettere ai diritti dagli animali di segnare un ulteriore passo avanti.