AVV. MONICA GAZZOLA – Introduzione

Buonasera a tutti.

Dopo queste bellissime parole di saluto, introduco i nostri Relatori con un paio di riflessioni.

Perché questo convegno? Si può parlare di “diritti fondamentali degli animali”’? Perché la Camera Penale Veneziana, in particolare la Commissione Diritti Fondamentali della Camera Veneziana, ha pensato di fare un convegno sulla tutela penale degli animali? Gli animali hanno diritti? Hanno diritti fondamentali?

A una prima lettura del sistema della tutela penale degli animali nel nostro Codice, sorgono dei dubbi interpretativi profondi. Innanzitutto, la collocazione sistematica dell’articolo storico del nostro Codice Penale, quel famoso articolo 727, che prevede una contravvenzione piuttosto blanda, un’ipotesi di reato, tra l’altro, oblabile. In origine, nel Codice Rocco del 1930, l’art.727 c.p. prevedeva tutta una serie di ipotesi che andavano dalle sevizie, alla crudeltà, fino all’ipotesi aggravata della morte dell’animale, e il tutto era inquadrato nell’ambito delle contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi, subito dopo l’art. 726 c.p. che punisce gli atti contrari alla pubblica decenza e il turpiloquio: le forme di protezione degli animali erano collocate alla fine del Codice e alla fine degli interessi tutelati dal legislatore. Tant’è che la dottrina assolutamente prevalente – cito Antolisei, cito Manzini – non aveva alcun dubbio nell’affermare che il bene giuridico tutelato da questa norma non fossero assolutamente gli animali ma fosse il sentimento dell’uomo verso le sofferenze dell’animale, quella pietas di cui troviamo esplicazione in Kant. Ricordiamo che Kant è spesso additato come il filosofo che per primo compiutamente ha soffermato l’attenzione sulla sofferenza degli animali, ma in realtà egli ha codificato una visione assolutamente antropocentrica. Kant diceva: “Bisogna evitare di creare sofferenze agli animali, perché questo può creare dolore agli esseri umani che vedono le loro sofferenze e ancor più perché questo può istigare gli uomini a loro volta a incrudelire verso altri uomini”.

Questa era l’impostazione dell’art. 727 c.p. che pareva non lasciare alcun margine interpretativo che andasse, appunto, oltre la tutela del sentimento umano.

Ma a cominciare dagli anni Ottanta, ancor prima delle riforme che hanno inciso anche sull’art. 727 c.p., dapprima una giurisprudenza coraggiosa di merito, ma poi vi arrivò anche la Corte di Cassazione, ancora prima delle novelle legislative successive, arrivò ad affermare che accanto alla tutela del sentimento degli uomini nei confronti delle sofferenze animali bisognava e bisogna considerare come soggetto diretto, come bene giuridico tutelato, anche l’animale in sé considerato. Mi risulta che la prima sentenza di legittimità sia stata una sentenza della Cassazione Penale, sezione III, del 14 marzo 1990 che ha statuito: “l’art.727 c.p. tutela gli animali in quanto autonomi esseri viventi”. Sentenza che ha avvallato una giurisprudenza di merito, e in questo voglio ricordare in particolare il Pretore di Padova, dott. Montini Trotti, storico propugnatore dei diritti animali, del quale è uscito da poco un libro postumo di raccolta di suoi scritti che si intitola “Gli animali hanno diritti”. Quindi, grazie a questa prima giurisprudenza coraggiosa, si è aperto un varco interpretativo negli anni ’80.

Ma non è un caso la collocazione temporale di questa novità ermeneutica nell’applicazione della norma. Nel 1975 era uscito infatti il libro fondamentale del filosofo australiano Peter Singer “Animal liberation”, tradotto anche in Italia, e accanto a questo forte pensiero animalista che obbligava a un ripensamento del nostro rapporto con gli animali sono iniziati nuovi studi divulgativi di etologia, ricordo fra tutti Konrad Lorenz col suo bellissimo “L’anello di Re Salomone”, ricordo il nostro amatissimo Danilo Mainardi, che ha insegnato qua a Venezia, che ha aperto gli occhi di tantissime persone a livello divulgativo sulla realtà della vita animale che è ben altro di una res cartesiana che se percossa o smembrata urla solo per reazione meccanica.

Dopodiché, abbiamo avuto, come tutti sappiamo, la riforma fondamentale della Legge 189/2004, che ha introdotto dei concetti che mutuano da queste nuove conoscenze dell’etologia, tant’è che fa espresso riferimento alla sofferenza, alle caratteristiche etologiche, alla natura dell’animale. Anche questa novella legislativa però purtroppo ha introdotto gli articoli che riguardano l’uccisione e il maltrattamento degli animali nell’ambito di un titolo, il Titolo IX bis, riduttivamente rubricato “Delitti contro il sentimento degli animali”. Tuttavia, il fatto di avere introdotto quali parametri valutativi della condotta il riferimento al sentire degli animali, alle caratteristiche intrinseche del singolo animale, ha creato una strada maestra per la giurisprudenza non solo di merito, ma anche di legittimità, che direi oggi assolutamente prevalente, che afferma che il bene tutelato dagli artt. 544 bis e 544 ter c.p. è l’animale in sé considerato.

Infatti, la giurisprudenza ormai prevalente della Corte di Cassazione afferma che ai fini della condanna per maltrattamento di animali – per il delitto di cui all’art.544 ter e per la contravvenzione di cui all’art.727 – non assumono rilievo solamente condotte offensive del sentimento di pietas umana nei confronti degli animali, ma anche quelle che incidono sulla stabilità e serenità fisiopsichica di questi esseri senzienti, anche qualora non si determinino in essi processi patologici. Così da ultimo: Cassazione III Sezione del 8/2/19, Cassazione III Sezione del 14/12/18, e Cassazione III Sezione del 15/11/18, che ha ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti anche in relazione a una sofferenza temporanea dell’animale.

Vi sono ulteriori spiragli normativi che offrono la possibilità ermeneutica di rafforzare il riconoscimento dell’animale in sé quale soggetto di tutela.

 Innanzitutto, la Legge del 14 agosto del 1991 sugli animali d’affezione e prevenzione del randagismo vieta l’uccisione dei cani randagi, una volta che siano catturati, e con questo pare enucleare un diritto alla vita del cane randagio. E, per quanto riguarda i gatti, una volta che siano sterilizzati viene previsto l’obbligo di introdurli liberi in colonie feline apposite, perché etologicamente il gatto non può essere rinchiuso in una gabbia: questo pare riconoscere un diritto fondamentale del gatto al rispetto del suo essere libero.

Ancor più significativa è la Legge 26/2014 d’attuazione della Direttiva Europea sulla vivisezione: la legge italiana di attuazione prevede che vi sia il divieto assoluto di utilizzare nella sperimentazione scientifica le grandi scimmie antropomorfe — gorilla, bonobo, scimpanzé e oranghi —, un divieto assoluto tout court. In questo, una volta tanto, il legislatore italiano è stato più severo rispetto a quello europeo, perché invece la direttiva prevede sì il divieto come principio generale, che però può essere derogato allorquando vi sia necessità di contrastare particolari affezioni nelle stesse grandi scimmie antropomorfe oppure nell’essere umano, previa autorizzazione della specifica Commissione costituita (articoli 8 e 55 della Direttiva). Quindi possiamo parlare, per quanto riguarda le scimmie antropomorfe, di un vero e proprio riconoscimento del diritto fondamentale alla vita e del divieto di tortura.

Nel disegno di legge n.1078 del 2019, si propone di modificare la rubrica, eliminando il riferimento al “sentimento per gli animali”, e prevedere invece la diretta tutela dell’animale.

Vi è un problema giuridico a monte in tutta questa riflessione, ossia: è possibile parlare di “diritti degli animali”? Gli animali possono essere titolari di diritti?

La risposta tradizionale, espressione dell’antropocentrismo filosofico, biblico e logocentrico, assolutamente maggioritaria a tutt’oggi, è: no, gli animali non possono essere titolari di diritti. La ragione fondamentale può essere riassunta nel pensiero dell’ultimo esponente, uno dei più famosi, di questo no assoluto, Scruton, e direi di tutti i neocartesiani attuali, che afferma: gli animali sono privi di senso morale, di responsabilità, quindi non fanno parte del contratto sociale e quindi, poiché solo chi fa parte del contratto sociale può essere titolare di diritti, gli animali non possono essere titolari di diritti.

Vi è tuttavia una riflessione filosofica, etica e giuridica di diverso avviso, che invece afferma: gli animali hanno rilevanza morale diretta, a prescindere dal fare parte o meno della comunità morale e, quindi, anche a essi devono essere riconosciuti diritti, quanto meno i diritti fondamentali alla vita e all’integrità psico-fisica. Il primo esponente di questa riflessione è Peter Singer, che richiamando la teoria neoutilitaristica della uguale considerazione degli interessi, afferma che la stessa quantità di sofferenza ha lo stesso valore indipendentemente dal soggetto che la prova e, quindi, deve essere garantita la medesima tutela. Poichè è pacifico che gli animali, quanto meno la maggior parte degli animali con cui entriamo in contatto, sentono dolore quanto noi, un dolore sia fisico che psicologico, dobbiamo riconoscere il loro diritto a non provare questa sofferenza, quindi il diritto alla vita e il diritto alla libertà come diritti fondamentali.

Accanto alla posizione di Peter Singer vi è la teoria del filosofo americano Tom Reagan, che è particolarmente interessante per i giuristi, perché introduce il concetto di pazienti morali. Afferma Reagan: sì, ci sono gli agenti morali che sono i soggetti che sono pienamente consapevoli, pienamente responsabili della loro attività, delle loro azioni, ma anche nel consesso umano vi sono pazienti morali, come i bambini e le persone con disabilità mentali. Occorre considerare gli animali così come i pazienti morali umani e quindi deve essere garantita anche ad essi quella tutela minima dei diritti fondamentali, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà. Questa teoria è ripresa in Italia da Rescigno.

È inevitabile osservare come tutte queste riflessioni sull’attribuzione di diritti agli animali appaiono sempre essere esplicazione di un modello antropocentrico, sia nell’individuazione di diritti, che è tipica espressione di un modello cognitivo e comportamentale umano, sia nell’attribuire diritti solo agli animali più vicini a noi per tradizione culturale (cani e gatti) o per somiglianza genetica e comportamentale (grandi scimmie antropomorfe).

E la stessa legge n.189/2004 costituisce la cartina al tornasole della visione antropocentrica: infatti l’art. 19 ter delle disposizioni di attuazione del nostro Codice Penale, introdotto dalla novella del 2004, esclude l’applicabilità degli artt. 544 bis e ter, quindi i reati di maltrattamento e uccisione, nelle materie disciplinate dalle leggi su caccia, pesca, allevamento, macellazione, sperimentazione scientifica, zoo, attività culturali. Da ciò discende che la tutela degli animali introdotta dalla novella del 2004 appare limitata agli animali antropizzati, ai “pets”, ed esclude gli animali che vengono utilizzati per la nutrizione, la salute e addirittura per il divertimento dell’uomo.

Sembrerebbe che sia per noi impossibile uscire dal nostro schema antropocentrico.

In realtà si confondono due aspetti del problema: un conto è parlare della teoria antropogenica del valore, cioè riconoscere l’inevitabilità dell’antropocentrismo inteso come modello percettivo e cognitivo, come limitatezza dei nostri mezzi, come caratteristica intrinseca del nostro essere umani; altra cosa è la sfera di attribuzione del valore che possiamo riconoscere. La genesi dell’etica e del diritto non può che attuarsi a partire dalle nostre caratteristiche umane, ma da ciò non deriva che l’etica e la tutela giuridica possano riguardare esclusivamente gli esseri umani: è possibile estendere il nostro riconoscimento morale e giuridico anche agli animali non umani, è possibile modificare il nostro comportamento nei confronti degli animali.

In realtà, proprio il fatto di essere esseri razionali, pensanti, dotati di coscienza, di libero arbitrio, insomma di tutte quelle qualità che ci fanno essere orgogliosi di essere umani, credo che dovrebbe condurci, e anzi obbligarci, a un ripensamento e a estendere i nostri mezzi di tutela a tutti gli esseri senzienti, con tutti i nostri limiti ma con tutta la nostra consapevolezza.

Sono molto contenta di dare la parola alla Dottoressa Marta Paccagnella, Vicepresidente dell’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari di Venezia, che da tempo con grande sensibilità e attenzione si occupa di questa materia. Grazie.

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