In aprile 2021, la Food and Agriculture Organization (FAO) ha pubblicato un report significativo dal titolo “Forest Governance by Indigenous and Tribal People. An Opportunity for Climate Action in Latin America and the Caribbean” (FAO 2021), con il quale l’organizzazione delle Nazioni Unite ha acclarato ufficialmente l’importanza del ruolo dei popoli indigeni per la difesa e la salvaguardia dell’ambiente.
Il rapporto della FAO ha ricostruito il legame tra popoli indigeni e Madre Terra (Pachamama), vista come personificazione della Natura stessa, come una connessione unica e speciale insita nelle radici storiche delle comunità indigene che hanno vissuto sempre a contatto con l’ambiente circostante. La natura, infatti, è considerata dall’indigeno come la ragione unica della propria esistenza e fonte della propria cultura e della propria tradizione: la comunità indigena esiste solo in quanto si riconosce in un determinato territorio, da sempre occupato dai propri avi, e nella biosfera circondante in un rapporto biunivoco e sinallagmatico. L’indigeno prende dalle risorse naturali circostanti e restituisce alla natura stessa, secondo uno schema ancestrale ciclico che non permette lo sfruttamento dell’ecosistema. Qualsiasi deterioramento ambientale comporta una minaccia per l’esistenza e la sopravvivenza delle comunità indigene. Pertanto, gli indigeni identificano la preservazione dell’ambiente e la difesa delle risorse naturali dalla deforestazione e dall’inquinamento come un “bene comune” (common), in quanto connesso alla sopravvivenza delle comunità.
Le battaglie legali di diverse comunità indigeni in America latina per la salvaguardia della foresta amazzonica, continuamente minacciata dall’espansione dell’agrobusinnes e dalle recenti politiche del Presidente brasiliano Jair Bolsonaro, o contro le espropriazioni forzate da parte delle amministrazioni statali in nome del “pubblico interesse” devono essere lette necessariamente in questa chiave: tutela della natura e tutela dell’esistenza.
Il passo decisivo del recente rapporto della FAO parte proprio dal modus vivendi indigeno per costruire un ipotetico percorso condiviso tra gli Stati: la salvaguardia dell’ambiente come “bene comune” (common) per la sopravvivenza del genere umano stesso. Lo schema indigeno diventerebbe, a questo punto, una strategia di base per la tutela dell’ambiente e un’opportunità per fronteggiare il problema del cambiamento climatico. Non a caso, il Summit on Climate Change del 2015 si tenne quasi in concomitanza con il primo meeting dei popoli indigeni in quanto protettori e custodi della terra.
Il rapporto della FAO, inoltre, non manca di ricordare come il diritto internazionale pattizio si sia già occupato in precedenza di questo problema, non limitandosi solo a riconoscere l’esistenza dei popoli indigeni, ma tutelando, anzitutto, il loro legame ancestrale con la terra alla quale appartengono storicamente. Infatti, in continuità e in evoluzione con la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro n.169/89, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni del 2007 (UNDRIP 2007) ha espressamente riconosciuto il legame tra popoli indigeni e terre ancestrali, imponendo agli Stati firmatari di attivare tutte le procedure necessarie per l’individuazione, la delimitazione e l’assegnazione delle terre storiche ai popoli indigeni abitanti (Art. 26, UNDRIP).
Dieci anni dopo la Dichiarazione ONU, purtroppo non sempre i governi nazionali hanno attivato tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento della proprietà indigena delle terre ancestrali e la loro restituzione alle comunità storiche. Tuttavia, un orientamento simile da parte della FAO rileva l’urgenza di avviare un procedimento condiviso per tutelare l’ambiente e il ruolo delle comunità indigene, al fine di preservare la biodiversità e di fronteggiare il cambiamento climatico. Si tratta decisamente di un passo in avanti da parte della comunità internazionale in attesa della 26esima Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che si terrà a Glasgow (UK)