La sentenza del Tribunale di Bergamo di mercoledì 1 marzo 2017 è certamente una pronuncia che possiede tutte le potenzialità di un precedente giurisprudenziale destinato a operare nei procedimenti penali attuali e futuri.
Con la sentenza de quo è stato infatti condannato in primo grado, a tre anni e sei mesi di carcere, ed a due anni di libertà vigilata, M.F., il c.d. “killer dei gatti” di Trescore Balneario, Bergamo, per il delitto ex art. 544ter.
Il reo, un uomo di 43 anni, visionava su Internet i siti di annunci in cui venivano pubblicati avvisi riguardanti cucciolate di gatti da affidare, ne contattava il proprietario e procedeva all’adozione del gattino. Dopo qualche tempo inviava ai proprietari originari, tramite WhatsApp, immagini di sevizie ed uccisioni dei gattini, talvolta accompagnate da frasi raccapriccianti.
È da sottolineare che, poiché le dichiarazioni rese in aula dai proprietari dei cuccioli risultavano estremamente agghiaccianti, il giudice, Antonella Bertoja, aveva invitato l’avvocato dell’Enpa, Claudia Ricci, a non chiedere ai testi troppi particolari sulle torture. Ad esempio, taluni avevano riferito di aver ricevuto delle ricette che indicavano come cucinare gli animali.
È da premettere infatti che una delle ex proprietarie dei gatti aveva anche sporto denuncia contro il 40enne per il reato di stalking, ex art. 612 bis c.p.[1], perché l’uomo le inviava ossessivamente messaggi tramite WhatsApp contenenti, ex multis, ricette per cucinare i felini, “Per fare una teglia, servono due animali adulti o 12 piccoli”, fotografie di sevizie e frasi irridenti come “Strangolo i gatti che sono buoni da mangiare”, o ancora, “Olè, il tuo gatto è morto”. La donna, che riceveva dall’imputato anche 10 – 15 messaggi al minuto, aveva proceduto alla denuncia, esitata, a dicembre 2016, nella sentenza di condanna, per il reato di atti persecutori, a due anni di reclusione, un anno di libertà vigilata, 13.000 euro di provvisionale alla vittima dello stalking, oltre all’obbligo di farsi curare in una struttura ospedaliera; in tale sede era stata riconosciuta la seminfermità mentale dell’imputato, risultato capace di intendere ma non di volere.
Per quanto attiene invece al procedimento penale per maltrattamento ed uccisione di animali[2], il magistrato del pubblico ministero aveva chiesto una pena di un anno e quattro mesi, ma il giudice ha riconosciuto all’imputato la recidiva specifica e lo ha condannato a tre anni e sei mesi di carcere, a due anni di libertà vigilata, al pagamento delle spese processuali e a versare un risarcimento di euro 5.000 per ognuna delle parti civili [3]
A mio avviso i punti fondamentali rinvenibili in tale procedimento e nella relativa sentenza sono così riassumibili; indubbiamente da un lato è necessario evidenziare l’entità della pena inflitta. È un segnale importante di come la sensibilità animalista si stia diffondendo sempre più nella giurisprudenza e di come i reati previsti dal Titolo IX bis, “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”, ab origine considerati dagli addetti ai lavori quali reati bagatellari, in ragione della loro ipotetica minima lesività e della loro supposta minore rilevanza sociale, vengano ad oggi giudicati e valutati con maggiore incisività, rispettando la loro effettiva portata e oggettiva gravità.
A ciò si può certamente riallacciare l’auspicio di prevedere un inasprimento delle pene per i reati in danno agli animali; come già avvenuto parzialmente con la novella del 2010, la speranza è che il legislatore si premuri di modificare la cornice edittale dei reati previsti dal nostro codice penale, ad esempio dagli artt. 544 bis, 544 ter, 544 quater, 544 quinquies e 727, nonché dei reati extra codicem, innalzandone sia la misura minima che la misura massima, così giungendo a fornire al giudice degli strumenti rieducativi, quali sono le pene in base all’art. 27 c. 3 della nostra Costituzione, ancora più efficaci.
Tale pronuncia, d’altro canto, è strettamente legata al tema della violenza sugli animali quale indice di pericolosità sociale; è indubbio infatti che essa sancisca palesemente la correlazione tra i reati contro gli animali, nel caso de quo il maltrattamento e la susseguente uccisione di animali, e il reato di atti intimidatori, c.d. stalking. La presenza simultanea di questi due reati certifica la condotta di maltrattamento/uccisione di animali quale indicatore predittivo estremamente efficace di altro comportamento violento, antisociale e criminale, come omicidio, stupro, stalking, violenza domestica, rapina, spaccio, furto, truffa, etc. [4].
Concludendo, è agevole rilevare quanto nei casi di condanna per reati contro gli animali sia fondamentale un’efficiente e pronta risposta rieducativa, finalizzata a neutralizzare la pericolosità sociale del reo e, quindi, ad evitare la reiterazione di reati della medesima specie o il compimento di nuovi delitti. Dunque, da un lato, si riafferma la funzione paideutica del diritto e dell’applicazione dello stesso da parte della magistratura, dall’altro, la necessità di provvedere a rendere sentenze sempre più incisive, anche dal punto di vista dell’entità della pena, nell’ambito dei reati in danno di animali, sia con finalità dissuasive – deterrenti, sia con finalità educative, nei confronti di tutta la società civile e del singolo di cui è già stata riconosciuta la responsabilità penale.
NOTE
[1] Articolo 612 bis c.p., “Atti persecutori”: Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.
[2] Articolo 544 ter c.p., “Maltrattamento di animali”: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 euro.
La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi.
La pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell’animale.”
[3]È da sottolineare che al condannato è stato riconosciuto il Patrocinio a spese dello Stato e quindi eviterà di pagare le spese processuali che saranno a carico dell’erario. I risarcimenti rimarranno invece cristallizzati.
[4]Al riguardo si veda l’articolo “La violenza sugli animali indice di pericolosità sociale” di Francesca Sorcinelli, Presidente LINK-ITALIA (APS), pubblicato su questa rivista.