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Ludovica Grella

Ludovica Grella

Laureata all'Università di Napoli Federico II ed avvocata dal 2022. Attivista antispecista, si batte per la causa collaborando con associazioni e collettivi antispecisti locali e nazionali.

Zoomafia e combattimenti tra animali

Fenomeno, dati dai rapporti zoomafia LAV e normativa di contrasto al fenomeno.

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Il fenomeno della zoomafia

Nel precedente articolo sulla zoomafia abbiamo già analizzato la definizione di “zoomafia” come quel “settore della mafia che gestisce attività illegali legate al traffico o allo sfruttamento degli animali” (Zingarelli, vocabolario della lingua italiana, cit.) o, ancora, «l’organizzazione criminale che trae profitto dal controllo di attività illegali che hanno al centro gli animali, quali corse clandestine, traffico di specie esotiche etc» (Aldo Gabrielli, grammatico, linguista, lessicografo e scrittore italiano, cit.).

Pertanto, intendiamo per “zoomafia” lo sfruttamento degli animali non umani per ragioni economiche, di controllo sociale e di dominio sul territorio, da parte di singoli che si riuniscono ed associano in clan mafiosi ed il contestuale sviluppo di un substrato delinquenziale radicato sul territorio che fa dello sfruttamento degli animali non umani il perno delle proprie attività criminali, in una cornice di violenza, prevaricazione e specismo.

La zoomafia, fenomeno che si registra soprattutto nel sud nostro paese, si nutre di un apparato che ha relazioni collusive con le realtà istituzionali e tristemente comprende: corse e scommesse clandestine di cavalli, svariati fenomeni illegali nel mondo dell’ippica, mercato e pesca illegale, macellazione clandestina, controllo dei pascoli, traffico illegale di cuccioli domestici e selvatici, combattimenti tra cani ma anche bracconaggio, mercato illegale di armi da caccia e controllo sui rifugi.

Nell’articolo presente, ci soffermeremo sui combattimenti tra animali nel contesto zoomafioso e non, analizzandone le condotte, le implicazioni e la normativa atta al contrasto di tale fenomeno.

I combattimenti tra animali

I combattimenti tra animali coinvolgono nel nostro paese sia gli “estimatori” di cani da presa e di “razze” combattenti che gli allevatori di cani lottatori. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un contesto che coinvolge tanto la criminalità comune che quella organizzata. Diversi esiti giudiziari hanno infatti accertato il coinvolgimento di elementi appartenenti alla camorra, alla sacra corona unita, al clan Giostra di Messina e ad alcune ‘ndrine.

A dispetto di quanto comunemente si pensa, i combattimenti tra animali non sono un fenomeno criminale presente solo o prevalentemente al Sud Italia o in territori dove è forte l’impatto della criminalità organizzata, ma anzi, è un fenomeno che purtroppo investe tutto il Paese con organizzazioni o gruppi che coinvolgono persone di quasi tutte le regioni.

Per avere un’idea dei numeri, sappiamo che dal 1998 fino al 2022 sono stati sequestrati circa 1348 cani e 120 galli da combattimento. 559 le persone denunciate, comprese 17 arrestate. Almeno 4 i combattimenti interrotti in flagranza. I reati correlati vanno dallo spaccio di sostanze stupefacenti all’associazione per delinquere, dalla violazione di domicilio al furto di energia elettrica, dall’invasione di terreni alla ricettazione degli animali, in uno scenario di illegalità e violenza, nel quale sono coinvolti non solo cani, ma anche galli, gatti, cinghiali – i c.d. “sparring partner” (cft. Rapporto zoomafia 2023, a cura di Ciro Troiano, pag. 80).

Ma a cosa ci riferiamo, nello specifico, quando parliamo di combattimenti tra animali?

Dobbiamo innanzitutto partire dal fatto che nel mondo animale, il combattimento rappresenta un metodo di manifestazione dell’aggressività tra membri della stessa o diversa specie con cui gli animali mettono in atto moduli comportamentali che coinvolgono l’uso di armi di offesa e difesa atte a conquistare o difendere il proprio territorio, proteggere sé stessi o la prole, o, ancora, a riprodursi.

Il combattimento intraspecifico che avviene in “natura” è sempre “ritualizzato” e termina quasi sempre senza che gli animali riportino ferite gravi o letali. Il “duello” di per sé si svolge secondo regole fisse, in cui i movimenti impiegati dagli animali sono ordinati in sequenze altamente stereotipate, che permettono loro di capirsi e di risolvere “pacificamente” le dispute, con l’emissione di chiari segnali comunicativi che indicano, ad esempio, l’accettazione della sconfitta, senza che si debba arrivare allo scontro fisico vero e proprio (cfr. “Combattimenti tra animali – manuale tecnico giuridico per un’azione di contrasto”, a cura di Ciro Federico Troiano, Responsabile Osservatorio Nazionale Zoomafia LAV).

Come animali umani abbiamo sfruttato ancora una volta in maniera negativa e specista tale tendenza degli altri animali, distorcendola, forzandola e strumentalizzandola, per dare vita al mondo oscuro dei combattimenti tra animali, per specismo e sete di denaro, nella totale noncuranza di ogni forma di rispetto, etica, amore verso di loro.

Se per la psicologia il combattimento tra animali rappresenta un momento di sostituzione in cui il “proprietario” dell’animale – che conduce una vita probabilmente molto triste- riesce in questo modo a trovare un minimo di soddisfazione per il suo fragile ego, è chiaro che la cultura specista in cui siamo immersi alimenta questo macabro gioco di potere in cui gli animali vengono usati per divertimento e come mezzo di vanteria e supremazia sugli altri animali.

Inquadramento giuridico e normativa di riferimento

Ai fini della legge, perché quindi possa intervenire la censura penale, occorre che l’evento del combattimento sia provocato, favorito, organizzato dall’uomo.

Il combattimento può avvenire tra membri della stessa o di diversa specie.

In particolare, la norma di riferimento che andremo ad analizzare è l’articolo 544 quinquies c.p. che prevede una sanzione delittuosa per chi “promuove, organizza o dirige combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali che possono metterne in pericolo l’integrità fisica”.

La pena si applica, quindi, a tutti coloro che determinano, provocano, preparano, danno inizio, guidano e disciplinano tali eventi.

Manca un’esplicita previsione per “chi partecipa” o “assiste”, ma a ciò sopperiscono gli articoli 110 (concorso nel reato) e 416 (associazione per delinquere) del codice penale.

Gli elementi necessari per la realizzazione del reato sono l’assenza di autorizzazione e il carattere di “pericolo” per l’integrità fisica degli animali che tali competizioni devono avere.

Non sono punite tutte le competizioni tra animali, ma solo quelle abusive che presentano oggettivi rischi di procurare danni fisici agli animali.

Si tratta, dunque, di un reato di pericolo e, pertanto, si viene puniti anche solo se la condotta posta in essere dall’agente sia anche solo potenzialmente capace di porre in pericolo il bene-interesse tutelato dalla norma incriminatrice. Il legislatore, in questo caso, è mosso dall’esigenza di anticipare la soglia di tutela di alcuni interessi considerati particolarmente rilevanti.

Per tale motivo, la semplice messa in pericolo del bene (l’integrità fisica dell’animale) è punita non a titolo di tentativo, ma proprio come reato consumato. Il comma 2 dell’art. 544 quinquies specifica, poi, che anche i proprietari o i detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni di cui al primo comma, se consenzienti, incorrono in una sanzione penale. Il legislatore mira così a reprimere un’abitudine molto diffusa, quella di consegnare gli animali a terzi per farli partecipare alle “gare” senza esporsi in prima persona.

Quali sono le aggravanti previste?

Ai sensi dell’articolo 544 quinquies c.p. sono previste alcune ipotesi in cui la pena è aumentata da un terzo alla metà. In primis, se le predette attività sono compiute in concorso con minorenni o da persone armate. La presenza di bambini o minorenni nel giro clandestino della cinomachia, così come abbiamo visto nel caso delle corse clandestine, è purtroppo molto diffusa. I bambini vengono “impiegati” nell’ausilio alla raccolta di scommesse, nell’accudire gli animali, nel fare da “palo”, nel procurare gli animali utilizzati come sparring partner.

I bambini vengono coinvolti anche negli allenamenti, costretti ad assistere inermi ai combattimenti, apprendendo così modelli antisociali di supremazia specista, imparando che la sofferenza degli altri animali può rappresentare un divertimento.

Sulla presenza di bambini nel giro dei combattimenti fra cani sono state raccolte numerosissime testimonianze negli anni di investigazione ad opera dell’Autorità giudiziaria e delle associazioni animaliste (in diverse videocassette sequestrate dalla polizia giudiziaria si vedono bambini che aiutano a lavare i cani, guardano lo scontro insieme agli altri spettatori, fanno il tifo).

Non a caso «le conseguenze più importanti nei bambini e negli adolescenti dell’assistere ad atti di violenza possono essere costituite dallo sviluppo di comportamenti aggressivi e antisociali e comunque da una difficoltà nei rapporti con i coetanei e nei rapporti sociali in genere. Un’altra possibile conseguenza è la desensibilizzazione nei riguardi della violenza stessa e l’assuefazione ad essa. L’assistere ripetutamente ad atti di violenza produce, infatti, in molti individui una diminuzione della loro reattività emozionale alla violenza, per cui comportamenti violenti, che all’inizio vengono percepiti con disagio e angoscia, col passare del tempo vengono per così dire accettati come comportamenti più o meno normali. La desensibilizzazione e l’assuefazione alla violenza implicano anche la diminuzione o l’atrofizzazione dell’empatia, della capacità cioè di immedesimarsi negli altri sul piano cognitivo e su quello emozionale. È utile ricordare che l’empatia è lo strumento più efficace per prevenire, ridurre ed eliminare la violenza nei rapporti tra gli esseri umani e tra gli esseri umani e gli altri animali» (Camilla Pagani, “La zoocriminalità minorile: gli effetti psicologici nei bambini e negli adolescenti dell’esposizione alla violenza”. Contributo al “Rapporto Zoomafia 2002”, di Ciro Troiano, LAV, Roma, 2002).

L’“aggravante” per il concorso di persone armate, invece, esercita una funzione preventiva ed è diretta ad impedire il verificarsi di fatti dannosi per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Il legislatore non si è limitato a sanzionare condotte di illecito impiego di armi, ma ha anticipato la punibilità a condotte prodromiche dello stesso impiego, come la semplice presenza di persone armate, senza che delle stesse si faccia uso.

In questo caso, l’interesse tutelato dalle fattispecie è da individuarsi nella prevenzione dei reati contro l’ordine pubblico e la sola presenza di persone armate rappresenta un pericolo per il mantenimento dell’ordine pubblico. Abbiamo poi un aumento di pena se le predette attività sono promosse utilizzando videoriproduzioni o materiale di qualsiasi tipo contenente scene o immagini dei combattimenti o delle competizioni e/o se il colpevole cura la ripresa o la registrazione in qualsiasi forma dei combattimenti o delle competizioni.

Esiste, purtroppo, un vero e proprio mercato illegale di videocassette e video produzioni relative ai combattimenti tra animali, una produzione che alimenta il giro delle scommesse e il mercato illegale che ruota attorno ai combattimenti.

Addestramento e allevamento

Il comma 3 dell’art. 544 quinquies c.p. recita: “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato, allevando o addestrando animali li destina sotto qualsiasi forma e anche per il tramite di terzi alla loro partecipazione ai combattimenti di cui al primo comma è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 5.000 a 30.000 euro. La stessa pena si applica anche ai proprietari o ai detentori degli animali impiegati nei combattimenti e nelle competizioni di cui al primo comma, se consenzienti”.

Ebbene, è noto che nell’ambito della cinomachia, l’allenamento e l’addestramento sono di per sé cruenti.

Ma cosa succede davvero agli animali nel mondo della cinomachia?

Gli animali vengono incrudeliti con strazio e sevizie, che vanno dal costringerli a comportamenti e fatiche insopportabili per le loro caratteristiche al detenerli in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze. Si pensi solo che una delle pratiche più tristemente diffuse è quella di far correre il cane in modo estenuante, col fine macabro di fargli sviluppare la muscolatura o per fargli “rafforzare il fiato”, legandolo per il guinzaglio ad un motorino in corsa, oppure usando pedane mobili elettriche, posatoi girevoli, tapis roulant sui quali i cani sono costretti a correre. È evidente che ci troviamo di fronte a chiare forme di maltrattamento animale, posto che in tema di maltrattamento di animali, una fatica eccessiva è quella che non può essere sottoposta ad un determinato animale senza provocargli notevoli sofferenze fisiche (vedi, in merito, Cass. pen., Sez. III, 21 ottobre 1986, sent. 11281).

Altri metodi orribili consistono nel costringere il cane a superare ostacoli portando una speciale imbracatura a cui sono stati legati dei pesi, oppure utilizzare un copertone di motorino tenuto con una corda a diversi metri d’altezza, al quale il cane deve aggrapparsi con i denti, con il fine di rafforzare la presa e i muscoli del collo; il cane morderà il copertone per la paura di cadere nel vuoto: una vera e propria tortura. Vengono chiusi in stanze buie o in sacchi di plastica per aumentarne l’aggressività, tenuti a digiuno e poi cibati con carcasse ancora vive, legati a qualche centimetro dal pasto.

Abbiamo, infine, l’utilizzo di quelli che vengono chiamati “sparring partner”, cani o gatti randagi ma anche galli, maiali, cinghiali, che subiscono altrettante violenze, fungendo da controparte per i macabri allenamenti, trascinati anche loro in questa infinita spirale di violenza.

Per l’addestramento non si usano certo metodi ortodossi: frustate, bastonate, collari chiodati o elettrici, catene. Ma se “I mezzi e strumenti utilizzati per addestrare gli animali o correggerne il carattere comportamentale devono considerarsi leciti fino al punto in cui il loro uso non superi il mero e realistico effetto deterrente, incidendo sulla sensibilità dell’animale e non generi nello stesso il superamento della soglia delle reattività al dolore” (Pretore di Amelia – 7 ottobre 1987, Est. Santoloci) come possiamo anche solo pensare che tutto ciò non si configuri chiaramente in termini di maltrattamento e sevizia?

Tra l’altro, l’eventuale addestramento (pur non essendo, da antispecisti, la domesticazione la via che riteniamo si debba seguire) deve essere, anche per legge, praticato con “trattamenti educativi etologicamente informati e quindi privi di ogni forma di accanimento e di violenza”. (così, Cass. Pen., III Sez., 20 dicembre 2022, sentenza n°. 43230).

Le cose non sono molto diverse per le lotte tra galli. I giovani galli scelti per le gare vengono allevati isolatamente in gabbie particolari o in appositi recinti, lasciati in “semilibertà” solo per alcune ore al giorno; per impedire improvvise lotte e ferimenti i galli vengono legati con una corda ad una zampa. Sono continuamente sottoposti a toelettatura e ad un costante ed estenuante allenamento fisico. Come per i cani avviene con orecchie e coda, per i galli cresta e i bargigli vengono tagliati, così come il piumaggio in alcune parti del corpo. Gli speroni sono accorciati per favorire l’applicazione di stiletti acuminati, ed anche qui non mancano gli sparring partner: galli considerati di poco valore e impossibilitati a difendersi perché legati, contro cui si accaniscono i fendenti dei lottatori.

Prima di essere lanciati nell’arena i galli vengono tenuti tra le mani dei proprietari e avvicinati l’uno l’altro in modo da accrescerne la rabbia e l’aggressività; poi, con un breve lancio, vengono liberati e ha inizio il match (dati raccolti dal Manuale tecnico-giuridico per un’azione di contrasto – Combattimenti tra animali, a cura di Ciro Federico Troiano, pag. 22 e ss).

È chiaro che:

«La condotta concretante il maltrattamento non deve necessariamente esprimere un sotteso truce compiacimento di infierire sull’animale né si richiede che da tale condotta siano scaturite lesioni alla sua integrità fisica. A consumare la previsione incriminatrice è cioè sufficiente la volontaria inflizione di inutili sofferenze, privazioni, paure od altri ingiustificati patimenti, comportamenti che offendono la sensibilità psicofisica dell’animale, quale autonomo essere vivente, capace di reagire agli stimoli del dolore, come alle attenzioni amorevoli dell’uomo, e che non possono andare esenti da sanzione. Alla loro origine non sempre si situa un atteggiamento di perversione o di abietto compiacimento, ma assai più frequentemente insensibilità ed indifferenza, ovvero incapacità di esprimersi e di rapportarsi in termini di pietà, di mitezza e di attenzione verso il mondo animale e le sue leggi biologiche, piuttosto che in termini di abuso, incuria e abbandono, pratiche decisamente estranee al costume civile, suscettibili anzi di promuovere pericolose involuzioni, abituando l’uomo all’indifferenza per il dolore altrui»

(così, Cassazione Penale – Sezione III – Sentenza del 20 dicembre 2002 n°. 43230 – Pres. Postiglione – Est.Vitalone – P.M. Danesi (diff.) Ric. P.M. in proc. Lentini).

Possiamo quindi convenire certamente che nei contesti della cinomachia il maltrattamento animale è la prassi, non l’eccezione e che nessun rispetto è riservato agli animali e alle loro vite. Le loro vite vengono strappate, i loro corpi costantemente violati, le loro coscienze imbruttite ed annichilite.

Il maltrattamento etologico nell’ambito dei combattimenti

Parlando di maltrattamenti nell’ambito dei combattimenti animali, occorre anche analizzare brevemente quali possono essere le conseguenze dal punto di vista etologico sugli animali coinvolti, richiamando l’art. 727 c.p. il quale recita che «chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività è punito con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro. Alla stessa pena soggiace chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze».

In generale, sappiamo che negli animali superiori, cioè gli animali dotati di un encefalo che consente loro di avere comportamenti complessi, diversi moduli comportamentali sono originati da una motivazione generale o pulsione generale, ovvero la forza che determina il loro comportamento, guidata da un meccanismo psichico.

La motivazione induce poi l’animale ad organizzare il suo comportamento verso il raggiungimento di un determinato obbiettivo.

Abbiamo tre stadi del comportamento: la fase di ricerca dell’obiettivo, la fase di ricerca dell’obiettivo, il comportamento orientato al raggiungimento di quel determinato obiettivo e la quiescenza al raggiungimento dell’obiettivo.

In contesti come quello detentivo e di maltrattamento ai fini dei combattimenti agli animali viene sempre impedito il raggiungimento dell’obiettivo, ed abbiamo quindi la soppressione del comportamento appetitivo che, soprattutto quando protratta nel tempo, provoca grande disagio nell’animale.

Il mancato raggiungimento della quiescenza finale, che si identifica a livello fisiologico con il mancato smaltimento e quindi con l’accumulo di sostanze endocrine, causa la perdita della condizione di benessere e quindi il raggiungimento della fase di stress.

Un cane a cui è impedito di deambulare, a catena o vessato, certamente non è un animale felice. È
necessario prendere piena consapevolezza della realtà che gli animali sono esseri viventi dotati sia
di sensibilità fisica al dolore, sia di reattività psichica alle condizioni di disagio e stress.

Pertanto, non è possibile valutare le conseguenze della detenzione in cattività unicamente sulla base della disponibilità della sussistenza alimentare necessaria alla sopravvivenza, viceversa occorre considerare che gli animali in cattività devono poter vivere, e non sopravvivere, in condizioni compatibili con la loro natura e che la costrizione in situazioni innaturali e il continuo impedimento del naturale svolgimento di pulsioni comportamentali innate, provoca il raggiungimento di uno stato di deperimento psichico e di conseguenza fisico che può causare dannigravi ed irreparabili.

La sosta obbligata in posizione innaturale, la difficoltà di muoversi o cambiare posizione comportano contemporaneamente danni sia a livello fisico che di stress. Per quanto riguarda il danno fisico, esso si può identificare con la difficoltà insita nel mantenere, per periodi prolungati, posture inconsuete che determinano una innaturale contrazione muscolare; l’impossibilità di utilizzare alcune parti fondamentali della muscolatura; l’impossibilità di effettuare le operazioni di pulizia fondamentali per il mantenimento di una buona condizione igienica.

I danni da stress riguardano l’incapacità di operare alcuni semplici ma fondamentali moduli comportamentali.

L’impossibilità di deambulazione dovuta, ad esempio, alla costrizione in ambienti stretti o ad una catena corta, assume prevalentemente un carattere di danno da stress (cfr., in merito, Manuale tecnico-giuridico per un’azione di contrasto – Combattimenti tra animali, a cura di Ciro Federico Troiano, pag. 30 e ss).

Quando un animale è tenuto sotto stress e in un ambiente che non gli permette di esprimersi e vivere serenamente anche dal punto di vista psicologico, svilupperà una serie di comportamenti anomali e patologie, tra cui:

a) stereotipie, ovvero sequenze relativamente invariate di movimenti che avvengono tanto frequentemente da divenire anomale (ad esempio, i cani possono girare in circolo o inseguirsi la coda, le scrofe possono mordere le sbarre del recinto, etc.);

b) attività sostitutive, ovvero comportamenti messi in atto ripetutamente in situazioni in cui essi non hanno rilevanza funzionale. Questi comportamenti possono essere generati da situazioni di conflitto in cui l’animale vuole fare qualcosa ma non può farlo (ad esempio, un cane può essere altamente motivato ad avere accesso a una determinata risorsa o a fuggire ma non può mettere in atto questi comportamenti e quindi la risposta alla situazione può essere un altro gesto in risposta alla frustrazione, ad esempio leccarsi una zampa);

c) comportamenti ridiretti, ovvero comportamenti ripetutamente rivolti verso stimoli che non sono direttamente legati alla situazione o stimolo che li genera dal punto di vista motivazionale (ad esempio, un gatto che non può cacciare un uccello che vede volare fuori da una finestra perché c’è un vetro che glielo impedisce può “ridirigere” il colpo di zampa verso un altro oggetto o essere vivente e graffiarlo);

d) apatia, ovvero una notevole diminuzione della risposta a stimoli che generalmente causano una qualche reazione in situazioni normali può essere sintomo di malessere.

Dunque, determinati contesti portano sia ad un danno fisico che ad un danno da stress quando le condizioni sono incompatibili con la natura degli animali.

Quando, come nel caso degli animali allevati ai fini del combattimento ad una situazione di cattività non idonea di per sé si aggiunge anche una serie di danni dovuti a incuria nella detenzione e/o a interventi volontari esercitati sugli animali allo scopo di alterarne o accentuarne alcuni comportamenti, tendenze o caratteristiche biologiche, tra cui la tendenza a difendersi o ad attaccare è evidente che tutto ciò sia altamente dannoso per gli animali, oltre che vile ed immorale.

I segni dei combattimenti

In termini di maltrattamento, riscontriamo nell’ambito della cinomachia anche i segni fisici che vengono inflitti agli animali; i punti più a rischio sono il muso, la testa, le orecchie, gli arti, soprattutto quelli anteriori, il collo, il ventre. Dopo un combattimento di solito gli animali presentano gravi ferite all’addome e agli organi genitali e in alcuni casi possono essere compromessi anche importanti organi interni, tanto che la prima causa di decesso è riconducibile alle ferite e alle emorragie riportate nello scontro.

Di frequente il combattente muore nel corso del match o subito dopo per arresto cardiaco, a causa dei trattamenti a cui vengono sottoposti (doping). Sovente, nelle operazioni di p.g., tra le prime cose accertate vi è la presenza di cani con segni di cicatrici dovute a ferite da combattimento o con ferite aperte.

Sebbene spesso gli imputati neghino che tali cicatrici derivino dai combattimenti, è facile distinguere dei segni che provengono da zuffe da quelle che provengono dai combattimenti: le prime sono molto superficiali e sporadiche, le seconde sono laceranti e frequentissime. Tra l’altro, la norma sul maltrattamento di animali sarebbe in ogni caso violata, in quanto il reato di maltrattamento di animali può commettersi sia mediante azione sia mediante omissione (Cass. pen., Sez. VI Sent. 10820 del 18/1/75 – Pres. Leone – imp. Ziboni) e non può essere messo in dubbio che la condotta omissiva di chi non prende le opportune cautele per impedire che i propri cani possano ferirsi e lacerarsi con una zuffa o lotta, tenendoli opportunamente separati in modo sicuro, integri il reato in esame.

Il doping

Un altro aspetto terribilmente triste della cinomachia è anche legato all’utilizzo del doping, intendendo con esso l’utilizzo di qualsiasi intervento esogeno (farmacologico, endocrinologico, ematologico, ecc) o manipolazione clinica che, in assenza di precise indicazioni terapeutiche, sia finalizzato al miglioramento delle prestazioni; intendiamo con questo termine riferirci alla somministrazione agli animali di sostanze eccitanti o anabolizzanti in grado di accrescerne in modo sleale le prestazioni psicofisiche.

La Legge 14/12/2000 n°. 376, “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta al doping”, prevede divieti e sanzioni per uso e traffico di sostanze dopanti in ambito agonistico.

Secondo la Legge 376/00, “costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.

Le modificazioni a cui fa riferimento la legge non sono soltanto di tipo fisico ma anche di tipo psichico. In ambito della cinomachia, infatti, le sostanze dopanti vengono usate sugli animali non soltanto per aumentare la resistenza allo sforzo e la potenza, ma anche per esasperare ulteriormente l’aggressività e la ferocia degli animali e per rendere ancora più cruente le lotte.

Le sostanze sono utilizzare principalmente per attutire o eliminare gli stati patologici in cui cani finiscono, per produzione eccessiva di acido lattico, disturbi circolatori, stanchezza, dolore fisico e stress mentale.

Tra le categorie di sostanze più usate ritroviamo: stimolanti, analgesici-narcotici, anabolizzanti, diuretici, ormoni peptidici, eritropoietina, cannabinoidi, beta-bloccanti, anestetici locali e non mancano manipolazioni farmacologiche, detenzione ed uso improprio di farmaci.

Conclusioni

È evidente come il fenomeno della cinomachia, sia nel contesto zoomafioso che in quello della criminalità comune, sia l’ennesima espressione della cultura dominante specista che vede gli altri animali come mezzo da utilizzare per divertimento, supremazia, dominio, mascolinità tossica, sopraffazione e sete di guadagno.

Non possiamo più negare o ignorare che tali fenomeni continuino a propagare una cultura specista. Le vite degli animali vengono loro rubate, i loro corpi sfregiati, le loro coscienze imbruttite e riempite di violenza.

Occorre parlarne, documentarci, essere consapevoli e premere affinché il Legislatore sia sempre più attento a questi temi, la normativa di contrasto sempre più forte, nella speranza che nessuno si senta più legittimato ad utilizzare i corpi altrui senza rispetto e consenso, che nessuno si senta più legittimato a trasformare l’esistenza degli altri animali in un campo di dolore e morte.

Non perdiamoci di vista!

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