SENTENZA

sul ricorso proposto da
M. M., ,
avverso la sentenza del 07-09-2020 della Corte di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica;
lette le conclusioni rassegnate ex art. 23, comma 8, del decreto legge n. 137 del
2020 dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott.
Pietro Molino, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza per
intervenuta prescrizione.
Penale Sent. Sez. 3 Num. 3758 Anno 2022
Presidente: ROSI ELISABETTA
Relatore: ZUNICA FABIO
Data Udienza: 20/10/2021

RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza del 7 settembre 2020, la Corte di appello di Roma confermava la sentenza del 16 novembre 2017, con la quale il Tribunale di Rieti aveva condannato M. M., con i doppi benefici di legge, alla pena di due mesi di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 544 bis cod. pen., a lui contestato perché, per crudeltà o, comunque, senza necessità, ovvero al solo fine di ricavarne carne da vendita e rimpinguare con i proventi le casse comunali, senza attivare la prevista procedura amministrativa, faceva abbattere un bovino privo di marca auricolare, facendogli esplodere un colpo di carabina alla testa dal tiratore scelto della Guardia di Finanza P. C., cui aveva fatto credere che l’animale fosse pericoloso per la popolazione; fatto commesso in Pozzaglia Sabina, in epoca prossima al 18 agosto 2010.
  2. Avverso la sentenza della Corte di appello capitolina, M., tramite i suoi difensori, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
    Con il primo, la difesa deduce l’erronea applicazione dell’art. 157 cod. pen., rilevando che il fatto risale al 18 agosto 2010, per cui, tenendo conto della sospensione dichiarata in primo grado per 147 giorni (cioè dal 25 maggio al 19 ottobre 2017), la prescrizione era maturata il 15 luglio 2018, ovvero nel periodo compreso tra la sentenza di primo grado e quella resa dalla Corte territoriale. Né, ad avviso della difesa, assume rilievo il fatto che l’imputato abbia rinunciato alla prescrizione, in quanto tale rinuncia è avvenuta all’udienza del 9 marzo 2017, cioè quando la prescrizione non era ancora maturata, per cui, secondo il richiamato orientamento della giurisprudenza di legittimità (il riferimento è alle sentenze Sez. 5, n. 13300 del 20/10/1599, Sez. 2, n. 527 del 15/11/2005, Sez. 6, n. 42028 del 04/11/2010 e Sez. 4, n. 48272 del 26/09/2017), la Corte di appello avrebbe dovuto rilevare, anche d’ufficio, l’inefficacia della rinuncia alla prescrizione e di conseguenza dichiarare l’estinzione del reato, a nulla rilevando che la prescrizione non sia stata eccepita dall’interessato in secondo grado.
    Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 544 bis cod. pen., contestando la valutazione con cui i giudici di merito hanno impropriamente escluso la sussistenza dello stato di necessità previsto dall’art. 54 cod. pen. e, per quanto concerne il reato de quo, dall’art. 544 bis cod. pen.
    Sul punto la difesa, nel ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale in materia, evidenzia che lo stato di necessità cui fa riferimento la disposizione speciale è ben diverso da quello previsto dalla norma generale; difatti, mentre quest’ultima impone la necessaria attualità del pericolo, inteso come contestualità tra minaccia e reato, l’art. 544 bis cod. pen. non presuppone che la minaccia sia attuale, ma comprende anche ogni altra situazione che induca a uccidere o a ledere l’animale per prevenire o evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno apprezzabile alla persona propria o altrui o ai beni.
  3. Ciò posto, la difesa sottolinea che, nel caso di specie, M., in qualità di Sindaco di Pozzaglia Sabina, aveva chiesto a un tiratore scelto della Guardia di Finanza di abbattere con una fucilata il bovino inselvatichito e vagante, perché ritenuto pericoloso per la viabilità e l’incolumità pubblica, per cui doveva ritenersi sussistente l’invocata esimente, in quanto correlata non già a un pericolo attuale,
  4. ma a pericoli futuri concretamente prevedibili, potendo l’animale provocare incidenti stradali o “caricare” qualche malcapitato, come avvenuto in passato.
  5. Con il terzo motivo, oggetto di doglianza è la mancanza di motivazione della sentenza impugnata in ordine al terzo motivo dell’atto di appello, con il quale era stata eccepita la mancanza dell’elemento soggettivo del reato: nel premettere che il delitto de quo è sorretto da dolo specifico, nel caso in cui sia commesso per crudeltà, ovvero da dolo generico laddove si sia agito senza necessità, la difesa rileva che, nel caso in esame, nonostante il tema dell’elemento soggettivo non sia stato debitamente affrontato dai giudici di secondo grado, dal corpo della motivazione si può escludere che la Corte territoriale abbia ritenuto l’imputato responsabile per aver agito con crudeltà, ossia per aver inflitto all’animale gravi sofferenze per mera brutalità, per cui l’elemento psicologico che si sarebbe dovuto ricercare è il dolo generico, consistente nella volontà di uccidere un animale nella consapevolezza di agire senza necessità, mentre, qualora l’imputato avesse ritenuto, per errore, che ricorressero ragioni di necessità per uccidere l’animale, la punibilità andava esclusa per difetto del dolo del reato, potendo l’errore scusabile riguardare anche la futura pericolosità dell’animale.
  6. Del resto, aggiunge la difesa, tale conclusione è stata sostenuta dalla stessa Procura di Rieti con riferimento alla posizione dello sparatore, nei cui confronti non si è proceduto, in quanto l’imputato gli aveva fatto credere che il bovino fosse pericoloso per la popolazione e non perché, come sostenuto dalla Corte di appello, sia stata ritenuta applicabile nei suoi confronti l’esimente di cui all’art. 51 comma 2 cod. pen. (fatto commesso per ordine dell’Autorità).
  7. Dunque, a venire in rilievo, non solo per lo sparatore ma anche per l’imputato, era un errore non sull’interpretazione della norma, cioè sui requisiti dello stato di necessità, ma sul fatto, inteso come errata percezione di una situazione in astratto qualificabile come necessità ai fini dell’art. 544 bis cod. pen.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

1. Per ragioni di coerenza logica, appare opportuno iniziare la disamina
dal secondo e dal terzo motivo di ricorso, suscettibili peraltro di essere esaminati congiuntamente, perché tra loro sostanzialmente sovrapponibili, in quanto entrambi riferiti alla formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputato.
Sul punto appare utile una breve e preliminare ricostruzione della vicenda, che invero, almeno nella sua scansione fenomenica, non risulta controversa.
Dunque, dalle due conformi sentenze di merito si evince che, nella tarda mattina del 18 agosto 2010, il Sindaco del Comune di Pozzaglia Sabina, contattava un tiratore scelto della Guardia di Finanza, P. C., che in quel momento si trovava a Roma, dicendogli che aveva necessità di incontrarlo urgentemente: i due in effetti si incontravano a Pozzaglia Sabina verso le 18 presso gli uffici comunali, dove M. rappresentava al suo interlocutore che nel territorio comunale vagavano liberi tre bovini, uno dei quali era estremamente
pericoloso per l’incolumità dei cittadini, per cui era necessario abbatterlo, il che induceva C. a mettersi a disposizione “per senso civico”, anche se mancava un formale provvedimento di autorizzazione dell’ASL competente.
Pertanto, la sera stessa, il Sindaco si recava a casa di C., comunicandogli che un pastore aveva avvistato la mucca in località San Michele di Montorio. Il finanziere si recava quindi sul posto e, individuato il bovino, gli sparava un colpo di fucile alla testa, uccidendolo, al che il Sindaco lo ringraziava e telefonava
al mattatoio per richiedere un mezzo di trasporto per l’animale. Dopo circa 15 giorni, il mattatoio vendeva la carne della mucca abbattuta e il ricavato della vendita, pari a 1.380 euro, veniva versato da M. nelle casse comunali.
Nel corso del dibattimento è stato altresì escusso il dr. M. R., veterinario dell’Asl di Rieti, il quale ha riferito di essere stato contattato la sera del 18 agosto 2010 dal responsabile del mattatoio, il quale sollecitava il suo intervento, dovendosi procedere a una macellazione d’urgenza.
Nel premettere che all’Asl non era pervenuta alcuna richiesta di autorizzazione all’abbattimento dell’animale, il dr. R. ha precisato che il Sindaco lo aveva in precedenza informalmente avvisato della presenza di animali vaganti nel territorio comunale, al che egli aveva precisato che era possibile abbattere i capi senza procedere al loro preventivo stordimento, in deroga agli ordinari protocolli, ma solo se effettivamente si fosse trattato di animali pericolosi, e comunque sempre con la necessaria presenza del veterinario dell’Asl, occorrendo peraltro una visita ante mortem al fine di valutare lo stato di salute della bestia, anche al fine di verificare la possibilità di destinare la carne all’uso alimentare.
In ogni caso, dopo la visita post mortem, verificato che i test sul virus della tubercolosi e della “mucca pazza” avevano dato esito negativo, il dr. R., rassicurato dal titolare del mattatoio e dal Sindaco circa le buone condizioni dell’animale, il quale presentava un auricolare, attestava nel certificato di macellazione d’urgenza che le carni erano idonee al consumo umano.

M., nel corso del suo esame, ha riferito di aver avuto varie segnalazioni circa la pericolosità della mucca, per cui, per evitare aggressioni e danneggiamenti e trattandosi di un animale isolato e non di una mandria, aveva deciso di far intervenire il tiratore scelto C., che con un solo colpo di fucile aveva
abbattuto l’animale, avendo il Sindaco altresì precisato che, nella campagna elettorale del 2009, aveva posto tra i punti del suo programma di governo la risoluzione del problema dei bovini vaganti, tema ignorato dal suo predecessore.
1.1. Orbene, alla luce di tali risultanze istruttorie, i giudici di merito sono pervenuti alla coerente conclusione circa la configurabilità del delitto di cui all’art. 544 bis cod. pen. (uccisione di animali) contestato all’imputato, il quale con la sua iniziativa ha provocato l’abbattimento della mucca materialmente uccisa da C., in assenza di alcuna effettiva necessità, non essendo affatto provato
che, al momento dell’uccisione, il bovino fosse pericoloso per la collettività.

Sul punto la Corte di appello, richiamando e sviluppando ulteriormente le già pertinenti considerazioni della sentenza di primo grado, ha infatti evidenziato che la mucca è stata abbattuta dopo essere stata avvistata tra le macchie di una località molto lontana dal paese, essendo significativo che alcuno dei circa 300 abitanti del piccolo Comune sia stato in grado di identificare la presunta vittima dell’asserita aggressione dell’animale che sarebbe avvenuta alcuni giorni prima, dovendosi al contrario rilevare che il teste M. L., Presidente dell’Università agraria di Montorio dal 2010, ha categoricamente negato l’esistenza di episodi di aggressione da parte di bovini selvatici pericolosi.

Del resto, hanno osservato sia il Tribunale che la Corte di appello, le segnalazioni ai Carabinieri circa l’esistenza di situazioni di pericolo collegate ad animali vaganti si fermavano al 2006, cioè a quattro anni prima dell’epoca del fatto. Pur non essendovi tenuta, la Corte territoriale ha poi esaminato anche le
sommarie informazioni di R. A., teste alla cui escussione la difesa aveva rinunciato in primo grado, ma il cui verbale di sommarie informazioni è stato comunque irritualmente allegato alla memoria deposita nel giudizio di secondo grado; al riguardo si è osservato che A. si era limitato a parlare di un fatto avvenuto nel 2009 presso l’orto della sorella L., le cui modalità di svolgimento non avrebbero giustificato alcun abbattimento d’urgenza del bovino, che peraltro, dopo un approccio minaccioso, si era allontanato da solo dall’orto. In modo del tutto ragionevole, pertanto, le due sentenze di merito hanno escluso sia che l’uccisione dell’animale sia stata giustificata da ragioni di effettiva necessità, sia che il fatto contestato sia scaturito da un’erronea percezione della realtà da parte dell’imputato, trattandosi peraltro di due aspetti tra loro correlati sul piano logico, per cui la risposta alle censure da parte della Corte di appello non può che essere desunta dal complessivo tenore della motivazione della sentenza impugnata, destinata peraltro a integrarsi con quella di primo grado.

Sotto il profilo del dolo, è stato comunque correttamente evidenziato già dal Tribunale (pag. 18 della sentenza di primo grado) che M., lungi dall’essere fuorviato da alcuno, ha posto in essere la condotta criminosa “scientemente e volontariamente, prescindendo deliberatamente dalle procedure imposte dalla legge”, profilo quest’ultimo valorizzato anche dalla Corte territoriale al fine di rimarcare la volontarietà dell’iniziativa dell’imputato, il quale ha determinato sul piano morale e istigato l’uccisione dell’animale, pur in assenza di una situazione di pericolo imminente, che non era stata evocata da alcuno in termini attuali. Né in senso contrario rileva il richiamo al programma elettorale del 2009 che contemplava la risoluzione del problema degli animali vaganti, richiamo che non solo non assume alcuna valenza esimente nell’ottica del presente giudizio, ma che per certi versi rafforza il giudizio sulla sussistenza del dolo, nel senso che evoca la natura strumentale dell’uccisione dell’animale, evidentemente voluta non per esigenze specifiche e concrete, ma per valutazioni di altro genere.
In proposito, quanto al correlato aspetto relativo alla configurabilità dell’esimente invocata dalla difesa, appare corretta la valutazione operata dai giudici di merito, i quali hanno richiamato la condivisa affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 49672 del 26/04/2018, Rv. 274075), secondo cui, in tema di delitti contro il sentimento per gli animali, la nozione di “necessità” che esclude la configurabilità del reato di uccisione di animali ex art. 544 bis cod. pen. comprende non solo lo stato di necessità previsto dall’art. 54 cod. pen., ma anche ogni altra situazione che induca all’uccisione dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona propria o altrui o ai propri
beni, quando tale danno l’agente ritenga altrimenti inevitabile.

Nel caso di specie, come ben argomentato sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, non era configurabile alcuna situazione di pericolo effettivo, circoscritto e imminente che giustificasse l’abbattimento a freddo dell’animale, non potendo certo ritenersi tale la generica esistenza di problemi legati alla circolazione di mucche vaganti nel territorio comunale, fermo restando che non è neanche
comprovato che il bovino ucciso fosse effettivamente quello oggetto delle presunte segnalazioni verbali ricevute dal Sindaco nei giorni precedenti, segnalazioni che peraltro riguardavano anche un’altra mucca e un vitello. In ogni caso, deve ribadirsi che la sola presenza di animali vaganti nel territorio comunale non può di certo ritenersi idonea a giustificarne l’uccisione, laddove, come appunto nel caso di specie, non risulti adeguatamente provata l’esistenza di un pericolo serio, concreto e imminente per l’incolumità delle persone o della prosecuzione di un danno grave ai loro beni, tale da non consentire l’attivazione delle procedure amministrative che, attraverso il coinvolgimento degli organi tecnici a ciò preposti, consentano sia di verificare la reale entità del pericolo, sia di individuare eventualmente soluzioni alternative all’abbattimento dell’animale.

In definitiva, in quanto fondato su un percorso argomentativo coerente con le acquisizioni probatorie e sorretto da considerazioni razionali, il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine al reato a lui ascritto non presta il fianco alle censure difensive, formulate invero in termini non adeguatamente specifici. Di qui l’infondatezza delle censure in punto di responsabilità.

2. Ad analoga conclusione deve pervenirsi rispetto al primo motivo, con il quale si censura la mancata declaratoria della prescrizione del reato. Sul punto deve premettersi che, risalendo il fatto al 18 agosto 2010, la prescrizione massima, pari a 7 anni e 6 mesi, è effettivamente maturata dopo la sentenza di primo grado, ovvero, tenuto conto dei 147 giorni di sospensione maturati nei giudizi di merito, in data 15 luglio 2018, dunque dopo la sentenza del Tribunale (resa il 16 novembre 2017), ma ben prima della sentenza di secondo grado, emessa in data 7 settembre 2020.
Deve tuttavia evidenziarsi che, nel giudizio di primo grado, all’udienza del 9 marzo 2017, l’imputato ha rinunciato alla prescrizione (la circostanza è pacifica). Ora, secondo la difesa, tale rinuncia dovrebbe ritenersi inefficace, in quanto avvenuta prima che fosse maturata la causa estintiva del reato, ciò in forza della costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 48272 del 26/09/2017, Rv. 271292 e Sez. 6, n. 42028 del 04/11/2010, Rv. 248739), secondo cui la rinunzia dell’imputato alla prescrizione è inefficace se il termine di prescrizione non è ancora maturato al momento della rinunzia medesima, in quanto solamente dopo che la prescrizione sia maturata, l’interessato può valutarne gli effetti.

Orbene, ritiene il Collegio che, rispetto a tale impostazione interpretativa, avuto riguardo alla peculiarità del caso concreto, siano necessarie talune precisazioni. In primo luogo, al fine di inquadrare il tema giuridico in esame, deve premettersi che, ai sensi dell’art. 157 comma 7 cod. pen., come riscritto dalla legge n. 251 del 2005, “la prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato”.

Sul punto, occorre peraltro evidenziare che, nella vigenza dell’originaria formulazione dell’art. 157 cod. pen., la Corte costituzionale, con la sentenza n. 275 del 1990, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non prevedeva che la prescrizione del reato potesse essere
rinunciata dall’imputato, ciò in base al rilievo secondo cui l’interesse generale dell’ordinamento a non più perseguire il reato (sorto a causa di circostanze eterogenee e comunque non dominabili dalle parti) non può sempre prevalere su quello dell’imputato a ottenere una sentenza di merito, con la conseguenza di
privarlo del diritto fondamentale al giudizio e, con esso, di quello alla prova.

Tanto premesso, non può sottacersi che l’attuale norma di riferimento, ovvero l’art. 157 comma 7 cod. pen., si limita a consentire all’imputato il diritto di rinunciare alla prescrizione, senza specificarne in quali forme e in che tempi tale opzione debba manifestarsi, desumendosi tuttavia dagli avverbi “sempre” ed “espressamente” che la rinuncia può essere esercitata in ogni fase processuale e va operata in modo esplicito e formale, e ciò anche alla luce delle conseguenze di tale iniziativa, avente valore di un atto dismissivo di un proprio diritto, cioè quello di far valere gli effetti dell’estinzione del reato per il decorso del termine prescrizionale; come efficacemente chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, in definitiva, la rinuncia alla prescrizione implica l’opzione dell’indagato o dell’imputato per la prosecuzione del processo verso l’epilogo di una pronuncia nel merito della regiudicanda e comporta, pertanto, anche la rivitalizzazione della pretesa punitiva statuale, altrimenti affievolita dal decorso del termine di prescrizione (Sez. Un., sentenza n. 18953 del 25/02/2016, Rv. 266333).

Proprio in ragione degli effetti riconducibili a tale opzione, la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 21666 del 14/12/2012, dep. 2013, Rv. 256076, richiamata e condivisa dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 18953 del 2016 appena citata) ha affermato che la rinuncia alla prescrizione rientra nell’alveo dei diritti
“personalissimi”, che possono essere esercitati dall’interessato personalmente o, al più, con il ministero di un procuratore speciale, restando dunque estranea alla sfera delle facoltà e dei diritti esercitabili dal difensore, ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. pen., in nome e per conto del suo assistito; in tal senso, è stato altresì precisato che la rinuncia alla prescrizione non è esercitabile dal difensore neppure nell’ipotesi in cui sia formulata alla presenza dell’imputato, che rimanga silente (così Sez. 2, n. 23412 del 09/06/2005, Rv. 231879). Del resto, già in un precedente intervento del 2010 (sentenza n. 43055 del
30/09/2010, Rv. 248379), le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che la rinuncia alla prescrizione richiede una dichiarazione di volontà espressa e specifica che non ammette equipollenti, non potendo la stessa, quindi, essere desunta implicitamente dalla mera proposizione del ricorso per cassazione.

Ciò posto, deve osservarsi che, nella vicenda in esame, è in discussione non la ritualità della rinuncia alla prescrizione, operata in udienza dall’imputato e dunque sotto tale profilo sicuramente valida, quanto piuttosto la sua efficacia, in quanto tale rinuncia è stata operata quando il reato ancora non era prescritto.

Ora, se può convenirsi con l’orientamento prima richiamato circa il fatto che la rinuncia diventa efficace quando matura la prescrizione, deve tuttavia ritenersi che la dichiarazione di rinuncia, operata a reato ancora non prescritto, non può essere qualificata come un mero flatus vocis privo di alcun rilievo, perché, se così fosse, si sarebbe in presenza di una dichiarazione irricevibile da parte dell’Autorità giudiziaria, il che deve essere escluso, e tanto anche alla luce della portata dell’art. 157 cod. pen., che non pone preclusioni temporali al riguardo.

Piuttosto, alla rinuncia alla prescrizione, operata quando la causa estintiva non è ancora maturata, pare corretto attribuire la natura di una dichiarazione che, ove non revocata, diventa pienamente efficace quando interviene la prescrizione.

Sul punto non ignora il Collegio che questa Corte ha affermato il principio secondo cui la rinuncia alla prescrizione non è suscettibile di revoca (Sez. 6, n. 17598 del 18/12/2020; dep. 2021, Rv. 280969), ma tale affermazione è stata riferita alla sola ipotesi in cui la rinuncia è stata formulata a reato prescritto e
dunque l’atto abdicativo era già efficace; invero, proprio sulla falsariga di tale impostazione, deve pervenirsi alla conclusione che, quando la rinuncia è stata formulata a reato non ancora prescritto, la stessa è sì inefficace, ma non per questo invalida, verificandosi i suoi effetti nel momento in cui si realizza l’evento cui la rinuncia è collegata, cioè il maturare del termine di prescrizione: fino a questo momento, la rinuncia è sempre revocabile, proprio perché non ancora efficace, mentre tale revoca non è più possibile, quando si è verificata la causa estintiva, e ciò proprio in base al principio, elaborato dalla richiamata sentenza n. 17598/2021, secondo cui la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione del reato diviene irrevocabile allorquando sia portata a conoscenza dell’Autorità giudiziaria, in quanto, una volta scelta la via del giudizio sul merito a fronte della potenziale estinzione del reato, la rinuncia esplica i suoi effetti “hic et nunc”, dando immediatamente luogo all’espletamento dell’attività processuale volta ad accertare la consistenza del tema di accusa; dunque, intervenuta la rinuncia alla prescrizione quale atto dismissivo attraverso cui l’interessato estromette un diritto già acquisito nella propria sfera giuridica, la rinuncia non è più revocabile e la non operatività della causa estintiva deve considerarsi definitiva perché superata da una contraria manifestazione di volontà il cui contenuto, solo in apparenza negativo, esprime in realtà l’esercizio del diritto dell’imputato a ottenere un bene maggiore, ossia un giudizio nel merito, con l’eventuale riconoscimento della sua piena innocenza attraverso il proscioglimento dall’addebito, anche se resta ovviamente salva la possibilità che il processo si chiuda con un epilogo sfavorevole al rinunciante, cioè con la sua condanna.

Analogamente, quando la prescrizione non è ancora maturata, la rinuncia alla prescrizione rimane consentita, ma i suoi effetti si verificano solo quando matura il termine prescrizionale: fino a questo momento, deve ritenersi che la rinuncia possa essere revocata, proprio perché non ancora operativa, tanto è vero che, prima del rilievo della prescrizione, il processo segue comunque il suo corso, come infatti è avvenuto nel giudizio di primo grado, che è andato avanti perché, a prescindere dalla rinuncia alla prescrizione, il reato non era ancora prescritto.

La prosecuzione del giudizio di appello verso un accertamento di merito è stata invece resa possibile dalla precedente rinuncia alla prescrizione, che è divenuta efficace nel momento in cui è decorso il termine prescrizionale del reato, dovendosi quindi ribadire che, una volta maturata la causa estintiva, la rinuncia alla prescrizione, ove non sia revocata dal diretto interessato, diventa efficace, perché la precedente dichiarazione non è affetta da alcun vizio, ma esprime una manifestazione di volontà che recupera la sua piena efficacia nel momento in cui si verifica la condizione cui la rinuncia era implicitamente subordinata.

Diversamente ragionando, si finirebbe con l’attribuire alla rinuncia alla prescrizione operata formalmente dall’imputato, sia pure a reato non prescritto, il valore di una mera dichiarazione foci causa destinata a restare priva di effetti nel corso dell’intero giudizio, pur se mai ritirata dal diretto interessato, il che renderebbe inspiegabile l’osservanza delle forme che invece correttamente sono pretese dal legislatore, per la gravità degli effetti che la rinuncia comporta.

In definitiva, la rinuncia alla prescrizione, operata quando non è ancora maturata la causa estintiva del reato, non è né nulla né irricevibile, ma è semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti nel momento in cui la prescrizione maturi, senza che prima di tale momento la dichiarazione di rinuncia sia stata revocata. Non bisogna dimenticare, del resto, che, nella sua scarna formulazione, l’art. 157 comma 7 cod. pen., nel riconoscere all’imputato il diritto di rinunciare alla prescrizione, utilizza due avverbi significativi, cioè “espressamente” e “sempre”, ciò a voler dire che la rinuncia può essere operata in ogni momento, dunque anche prima che maturi la prescrizione, dovendo tale rinuncia essere espressa, proprio perché, per effetto di tale dichiarazione di volontà, il divieto di procedere nell’azione penale è sostituito dal dovere di procedere, con la precisazione che, finché la causa di estinzione non matura, la rinuncia è valida ma non efficace e dunque revocabile, mentre, una volta decorso il termine prescrizionale, la rinuncia precedente, ove non revocata in tempo utile, dispiega i suoi effetti, al pari della rinuncia formalizzata dopo la prescrizione e prima della sua declaratoria; è invece tardiva e inefficace la dichiarazione di rinuncia alla prescrizione del reato formulata dopo che sia stata pronunciata sentenza nel grado di giudizio in cui è maturata (così Sez. 5, n. 11928 del 17/01/2020, Rv. 278983-02); sul punto deve solo aggiungersi che la rinuncia tempestivamente formulata a reato prescritto, a differenza della prima, va ritenuta irrevocabile, in quanto con essa l’imputato ha di fatto “autorizzato” la prosecuzione dell’azione penale nei suoi confronti e non può sottrarsi alle conseguenze, e agli inevitabili rischi, anche di una condanna, derivanti dalla scelta processuale operata.

2.1. Ora, in base a tali premesse interpretative, deve osservarsi che, nel caso di specie, correttamente è stata ritenuta operante la rinuncia alla prescrizione formalizzata da Mulieri nel corso del giudizio di primo grado. Se è vero, infatti, che la rinuncia alla prescrizione è avvenuta a reato non ancora prescritto, è altrettanto innegabile che l’imputato non ha mai revocato la sua rinuncia, né prima né dopo che è maturata la causa estintiva, tanto è vero che né nell’atto di appello né nella memoria difensiva depositata il 20 febbraio 2020 in vista dell’udienza del giudizio di secondo grado, né tantomeno al momento in
cui sono state rassegnate le conclusioni all’udienza del 7 settembre 2020, la difesa è tornata sulla questione della rinuncia, concludendo solo sul merito, in tal modo corroborando ulteriormente il convincimento che l’opzione processuale dell’imputato formalizzata in primo grado e mai revocata, fosse rimasta ferma. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha considerato valida la rinuncia alla prescrizione, validamente formulata dal diretto interessato e divenuta efficace, in assenza di revoca, al momento del decorso del relativo termine.

Dunque, la conferma da parte della Corte di appello del giudizio di colpevolezza operato dal Tribunale, anche dal punto di vista processuale, oltre che sotto il profilo sostanziale, non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.

3. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell’interesse di M. deve essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 20/10/2021

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