Nel settembre 2020, dopo una relativa tregua, è riemersa nuovamente una situazione critica nel territorio amazzonico appartenente al Brasile. Numerosi incendi sono divampati in diverse aree, seppur in misura minore rispetto all’anno scorso e con un intervento abbastanza tempestivo da parte dell’esercito per il contenimento. Tuttavia, la riproposizione dello stesso scenario ha reso chiaro l’attuale contesto: l’Amazzonia continua ad ardere e a morire e, di fatto, nessuna istituzione brasiliana pare preoccuparsene.
L’Istituto Nazionale per la Ricerca Spaziale (INPE), agenzia governativa che si occupa della gestione ambientale ed ecologica brasiliana, ha individuato nel solo mese di agosto ben 29.308 focolai di incendio, di cui oltre 10.000 nello Stato di Paranà, con una tendenza in netta crescita. La gestione degli incendi è diventata talmente rapida e improvvisa da non riuscire ad essere contenuta in modo efficace e in tempi brevi. Malgrado sia stato approvato un decreto esecutivo che vieta incendi ai fini di allevamento e agricoltura per un periodo di quattro mesi, il Presidente Jair Bolsonaro continua a negare la gravità della deforestazione amazzonica in seguito agli incendi, attribuendone la responsabilità agli usi delle comunità indigene viventi o all’intervento di ong antagoniste al governo.
Da uno studio elaborato in modo scientifico sulla base del monitoraggio satellitare della NASA, pare che gli incendi in Amazzonia siano di cinque tipologie diverse: incendio da deforestazione, incendio boschivo sottobosco, incendio di piccola radura, incendio agricolo, incendio nella savana. Mentre le ultime tre tipologie erano già di prassi comune e, quindi, contenute nei limiti geografici e temporali dalle comunità abitanti, l’incendio boschivo nel sottobosco è una pericolosità comune delle aree forestali, che, tuttavia, raramente assume proporzioni come quelle degli incendi amazzonici.
Pertanto, è rilevabile che la maggior parte del territorio soggetto ad incendi è stato frutto di una concreta operazione di deforestazione per creare nuovi spazi agricoli e industriali, favorevoli all’insediamento delle imprese.
A confermare questa tendenza, è possibile denotare che circa il 65% delle aree deforestate a causa di incendio l’anno scorso è stato oggi devoluto ai grandi allevamenti di animali, che costituiscono un settore economico importante del Brasile.
Infatti, l’industria dell’agrobusiness in Brasile è tuttora una delle industrie produttive più potenti e che vanta il maggior numero di esportazioni: negli ultimi anni, sono state impiantate colture intensive che hanno depauperato completamente il terreno amazzonico e allevamenti di animali destinati al macello su ampia scala.
L’habitat e l’ecosistema delle regioni amazzoniche ne sono risultati fortemente compromessi, agendo in modo determinante sulla fauna e sulla flora locali e favorendo la variazione climatica della zona. Secondo i dati dell’Osservatorio sul Clima, è difficile una ripresa, soprattutto in considerazione di uno sfruttamento selvaggio che continua a prolungarsi con il benestare del governo.
La politica del Presidente Bolsonaro, infatti, si è rivelata immediatamente anti-ambientalista e anti-climatica. Nei suoi primi mesi di presidenza, una serie di decreti presidenziali ha depotenziato l’INPE e ha esautorato l’IBAMA (ovvero l’Istituto brasiliano che si occupa di monitorare l’ambiente e le risorse naturali e, quindi, anche del monitoraggio della deforestazione amazzonica). In questo modo, sono state da subito incentivate le posizioni delle grandi imprese dell’agrobusiness, forti sostenitrici della campagna elettorale di Bolsonaro nel 2018.
La scarsa sensibilità ambientale del Presidente brasiliano, d’altronde, è tangibile in ogni sua osservazione e in ogni sua negazione del problema ambientale, della crisi amazzonica, della distribuzione delle terre alle comunità indigene (procedura che Bolsonaro definisce “ingiusta” nei confronti dei cittadini brasiliani stessi e derivante da una logica di “vittimismo”). Lo stesso Presidente ha definito l’Amazzonia territorio esclusivo di sovranità del Brasile e, quindi, del popolo brasiliano e non patrimonio dell’umanità secondo l’UNESCO. Di recente, le relazioni governative hanno contraddetto persino i dati prodotti dall’INPE, negando qualsiasi deforestazione e minimizzando la pericolosità dei roghi in Amazzonia.
Ad aggravare la situazione, durante i primi mesi della pandemia da COVID-19, ha contibuito una scellerata gestione dell’epidemia che ha individuato alcuni territori amazzonici come luogo ideale per il seppellimento dei deceduti a causa della pandemia. È diventata tristemente nota la fossa comune di Manaus, in cui deceduti provenienti da diversi stati federati interni sono stati tumulati.
La situazione dell’Amazzonia brasiliana rimane ancora critica e gli incendi hanno privato del proprio habitat naturale diverse comunità indigene ivi abitanti. In assenza di una fattispecie penale internazionale per ecocidio, il Parlamento europeo ha proposto recentemente uno studio sulla deforestazione per sollecitare una procedura davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità.