Avv. Annalisa Gasparre

Avv. Annalisa Gasparre

Avvocato, dottore di ricerca, vanta una decennale esperienza nel settore della tutela degli animali e dei soggetti deboli. <a href="https://www.avvocatoannalisagasparre.it/">Sito internet</a>

Caratteristiche etologiche come parametro per misurare la sofferenza dell’animale

Importante pronuncia della Cassazione, che interviene nuovamente sui rapporti tra le due fattispecie previste dagli articoli 544 ter e 727 del codice penale, precisando i confini.

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Un gufo reale era costretto «in una voliera di dimensioni talmente ridotte da non consentirgli neppure lo spiegamento completo delle ali» e «non aveva alcuna possibilità di movimento, anche in ragione della presenza di un treppiede e di trespoli che, all’interno della voliera, ne restringevano ulteriormente il campo» (di recente, riguardo un altro episodio di detenzione incompatibile di un rapace, Gasparre, Detenzioni incompatibili: i rapaci devono poter volare – Cass. pen. 1489/18, in Persona&Danno, 4.4.2018). Anche le condizioni igieniche erano precarie. Disposta la confisca, il Tribunale di Aosta ha condannato l’imputato per il reato di detenzione incompatibile (art. 727 c.p.).

La Corte di cassazione ha confermato la condanna precisando che «la detenzione penalmente rilevante ricorre in presenza della duplice condizione di incompatibilità dello stato di detenzione degli animali con la loro natura e dell’idoneità della medesima a provocare ad essi gravi sofferenze, di talché entrambe si configurano come elementi costitutivi del reato». Il parametro normativo della natura degli animali in base al quale la condotta di detenzione si pone come contraria e perciò assume valenza illecita, richiede, per le specie più note, che ci si riferisca al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per quelle meno comuni, alle acquisizioni delle scienze naturali; a ciò si aggiunge che «per gli animali invece tenuti dall’uomo in condizioni di cattività, e dunque di per sé, se non incompatibili, comunque non conformi con la loro natura, come avviene per quelli tenuti in gabbie, stalle o recinti al fine di evitarne la fuga, l’elemento della grave sofferenza assume valore dirimente al fine della configurabilità del reato»

Pertanto, la Corte precisa che «pur nella ontologica differenza con il delitto di cui all’art.544 ter c.p. di natura necessariamente dolosa in quanto volto a punire la condotta volontaria di chi provoca maltrattamenti agli animali», il riferimento alle caratteristiche etologiche degli animali in detenzione configura «anche in questo caso il parametro su cui misurare la sofferenza integratrice la fattispecie delittuosa di cui all’art.727 c.p., da valutarsi caso per caso in relazione alle caratteristiche comportamentali e ai rapporti del singolo esemplare con l’ambiente in cui naturalmente vive la sua specie». Il che non comporta alcuna sovrapposizione tra l’art. 727 e l’art. 544 ter c.p.: «il reato di illecita detenzione si perfeziona indipendentemente dal fatto che l’animale possa subire veri e propri danni alla sua integrità fisica, ben potendo l’illegittima detenzione derivare anche da una condotta meramente colposa, improntata cioè a disattenzione, superficialità ovvero incuria».

Insomma, le gravi sofferenze cui fa riferimento l’art. 727 comma 2 c.p. sono quelle che superano la soglia di tollerabilità (rapportata alle caratteristiche etologiche e all’habitat naturale dell’animale), «senza che ciò implichi la necessaria sussistenza di una sottostante normativa anche soltanto regolamentare volta a disciplinare, per la cura del benessere dell’animale, la detenzione»; ciò perché «il precetto penale contenuto nell’art. 727, comma 2. c.p., non è di certo integrato, come già chiarito da questa Corte, da tali fonti normative, (cfr. la sentenza n. 37859 del 4.6.2014, citata)» (v. Gasparre, Canili lager: quel pasticciaccio degli appalto per canili – Cass. pen. 37859/2014, in Persona&Danno, 30.9.2014).

Il Tribunale di Aosta ha ritenuto correttamente che «la detenzione di un uccello all’interno di una gabbia dalle dimensioni particolarmente ridotte rispetto alla sua stazza, tale da non consentirgli neppure la piena apertura delle ali, né una sia pur modesta possibilità di movimento anche in ragione della presenza di un treppiede e di trespoli al suo interno che ne restringevano ulteriormente il campo, e senza che le condizioni igieniche della vaschetta per l’acqua gli consentissero la pulizia delle piume, del tutto irrilevante risultando l’assenza di lesioni o l’integrità delle sue condizioni di salute. Invero il bene giuridico protetto non è costituito, a differenza del delitto previsto dall’art. 544 ter c.p., dall’integrità fisica dell’animale, bensì dalla sua stessa condizione di essere vivente perciò meritevole di tutela in relazione a tutte quelle attività dell’uomo che possano comportare, anche soltanto per indifferenza o negligenza od incuria, l’inflizione di inutili sofferenze»

A ciò si aggiunge che «la natura di rapace notturno, quand’anche comporti, in assenza di linee guida sui gufi reali, l’abitudine per il volatile di restare per lo più appollaiato in attesa della preda, non esclude una condizione di sofferenza trattandosi pur sempre di un volatile, comunque avvezzo a sia pur brevi voli nella quotidianità e comunque ad una condizione di fisiologica mobilità, di talché le condizioni di detenzione in cui veniva tenuto erano del tutto incompatibili con la sua natura».

Volendo per un monitoraggio giurisprudenziale e casistico, Gasparre, Diritti degli animali. Antologia di casi giudiziari oltre la lente dei mass media, Key editore.


Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 30 gennaio – 9 ottobre 2017, n. 46365 – Presidente Cavallo – Relatore Galterio

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 5.6.2015 il Tribunale di Aosta ha condannato Sa. La. alla pena di Euro 1.200 di multa ritenendolo responsabile del reato di cui all’art.727 c.p. per aver detenuto un gufo reale in una voliera di dimensioni talmente ridotte da non consentire all’animale neppure lo spiegamento completo delle ali, ritenendosi la suddetta condizione incompatibile con la sua natura e produttiva di gravi sofferenze. Avverso tal sentenza l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, per i motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. c.p.p.:
– violazione di legge riferita all’art.593 c.p.p. per erronea indicazione nel dispositivo della sentenza della sanzione indicata come multa in luogo dell’ammenda prevista per il contestato reato contravvenzionale con conseguenze sul regime di impugnazione potendo il ricorso diretto per Cassazione essere esperito nei confronti delle sole pronunce concernenti reati punibili con la pena dell’arresto e dell’ammenda;

– violazione di legge riferita all’art.727, 2 comma c.p. e vizio motivazionale sia perchè la penale responsabilità dell’imputato risultava fondata sulla sola detenzione dell’animale in condizioni incompatibili con la sua natura, senza che siano state accertate le gravi sofferenze della bestia, elemento costitutivo anch’esso della condotta incriminata, essendo stato invece riferito dai testi escussi che il gufo godeva di ottima salute; sia perché, sullo stato di detenzione dell’animale, erano comunque state travisate le risultanze dibattimentali dalle quali era emerso in astratto un deficit di normativa circa le dimensioni minime delle gabbie in cui collocare esemplari di stazza superiore ai 25 cm. e che il gufo reale non apre mai completamente le ali nemmeno durate il volo, limitandosi peraltro, come i rapaci notturni, a brevi voli per la caccia o per la pulitura delle piume, e che comunque trattavasi di animale “improntato”, avendo definitivamente persole abitudini della propria specie;

– violazione di legge riferita all’art.727 2. comma c.p. e vizio motivazionale per essere stato erroneamente responsabile della contravvenzione contestagli quando egli non aveva né la proprietà né la custodia del gufo riconducibile ad altri soggetti;

– violazione della legge per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale della pena in assenza di elementi che consentano di verificare il corretto esercizio della discrezionalità in ordine al diniego, rimasto immotivato;

– violazione di legge riferita all’art.240 c.p. per essere stata disposta la confisca del gufo di proprietà di un terzo, al quale l’animale doveva perciò essere restituito

Considerato in diritto

1. La censura oggetto del primo motivo configura un mero errore materiale essendo stata la pena correttamente riportata come ammenda nella parte motiva della sentenza e come emerge incontrovertibilmente dalla natura contravvenzionale del reato per il quale è stata ritenuta la penale responsabilità dell’imputato all’esito del procedimento definito dalla sentenza impugnata, senza che possano insorgere dubbi di sorta per essere la violazione dell’art.727 c.p. l’unico illecito contestatogli.
Al riguardo va chiarito che la regola generale per la quale, in caso di discrasia tra il dispositivo della sentenza e la sua motivazione è il primo a prevalere, trattandosi della parte del documento che esplicita le ragioni della decisione del giudice, non costituisce un principio inderogabile, alla luce delle plurime e differenti cause alla base del contrasto. Muovendo dalla funzione propria della motivazione volta ad esplicitare le ragioni per cui il giudice è pervenuto alla decisione è stato affermato da questa stessa Corte che nell’ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un errore nella materiale indicazione della pena nel dispositivo e dall’esame della motivazione emerga in modo chiaro ed evidente la volontà del giudice, potendosi ricostruire il procedimento seguito per determinare la sanzione, la motivazione prevale sul dispositivo, con la conseguente possibilità di rettifica dell’errore in sede di legittimità, secondo la procedura prevista dall’art. 619 cod. proc. pen., non essendo necessarie, in tal caso, valutazioni di merito. Deve ovviamente trattarsi di mere sviste materiali nella redazione del dispositivo, ovverosia di errori percepibili ictu oculi e derivanti da una palese divergenza tra l’intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, non potendo invece tale procedimento trovare applicazione nel caso in cui la difformità presenti profili di merito non valutabili in sede di legittimità (cfr. Sez. 4 n. 43419 del 29/09/2015, Rv. 264909; Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016 – dep. 23/06/2016, Fe. e altro, Rv. 26715301).
Il motivo in esame è pertanto manifestamente infondato, non discendendo dalla evidente discrasia rilevabile tra le parti della sentenza impugnata (dispositivo e motivazione) la conseguenza prospettata dal ricorrente.

Vertendosi infatti in errore di denominazione della specie della pena, trova applicazione il secondo comma dell’art.619 c.p.p., che consente direttamente alla Corte di Cassazione di provvedere alla rettifica senza pronunciare annullamento: la natura contravvenzionale del reato impone la rettifica del dispositivo disponendosi che la pena pecuniaria indicata come “multa” in dispositivo venga ivi sostituita con il termine “ammenda”, come correttamente indicato nella motivazione.

2. Il secondo motivo è infondato.

La fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 727 c.p., con riferimento all’ipotesi prevista dal secondo comma che punisce la condotta di chi “detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze”, è stata variamente interpretata da questa Corte, essendosi ritenuto che la fattispecie incriminatrice sia integrata “dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali” (Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014 – dep. 17/02/2015, Ga., Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 04/06/2014 – dep. 16/09/2014, Ra. e altro, Rv. 260184), ovvero nel senso che le condizioni in cui vengono custoditi gli animali, incompatibili con la loro natura^ non risultino “dettate da particolari esigenze e risultino tali da provocare negli stessi uno stato di grave sofferenza, indipendentemente dal fatto che in conseguenza di tali condizioni di custodia l’animale possa subire vere e proprie lesioni dell’integrità fisica” (Sez. 3, n. 2774 del 21/12/2005, dep. 24/01/2006, No., in motivazione), o ancora allorquando venga posta in essere una condotta tale da “incidere sensibilmente sull’integrità psico-fisica dell’animale” (Sez. 3, n. 21932 del 11/02/2016 – dep. 25/05/2016, Ba., Rv. 26734501) o “sulla sua sensibilità producendogli un dolore” (Sez. 3, n. 44287 del 07/11/2007 – dep. 28/11/2007, Be. Pa., Rv. 238280).
Muovendo dalla littera legis, occorre rilevare che la detenzione penalmente rilevante ricorre in presenza della duplice condizione di incompatibilità dello stato di detenzione degli animali con la loro natura e dell’idoneità della medesima a provocare ad essi gravi sofferenze, di talché entrambe si configurano come elementi costitutivi del reato. Pertanto il parametro normativo della natura degli animali in base al quale la condotta di detenzione si pone come contraria e perciò assume valenza illecita, mentre richiede, così come precisato dalla citata giurisprudenza, per le specie più note, che ci si riferisca al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per quelle meno comuni, alle acquisizioni delle scienze naturali (cfr. in motivazione la sentenza n.37859/2014, cit.), per gli animali invece tenuti dall’uomo in condizioni di cattività, e dunque di per sé, se non incompatibili, comunque non conformi con la loro natura, come avviene per quelli tenuti in gabbie, stalle o recinti al fine di evitarne la fuga, l’elemento della grave sofferenza assume valore dirimente al fine della configurabilità del reato. Si ritiene, pur nella ontologica differenza con il delitto di cui all’art.544-ter c.p. di natura necessariamente dolosa in quanto volto a punire la condotta volontaria di chi provoca maltrattamenti agli animali, che il riferimento alle caratteristiche etologiche degli animali in detenzione configuri anche in questo caso il parametro su cui misurare la sofferenza integratrice la fattispecie delittuosa di cui all’art.727 c.p., da valutarsi caso per caso in relazione alle caratteristiche comportamentali e ai rapporti del singolo esemplare con l’ambiente in cui naturalmente vive la sua specie. Il che non comporta alcuna sovrapposizione della norma in esame con l’art.544-ter c.p. posto che questa Corte ha reiteratamente precisato che il reato di illecita detenzione si perfeziona indipendentemente dal fatto che l’animale possa subire veri e propri danni alla sua integrità fisica, ben potendo l’illegittima detenzione derivare anche da una condotta meramente colposa, improntata cioè a disattenzione, superficialità ovvero incuria (Sez.3, n.2774 del 21.12.2005, No., Rv.233304 in motivaz.; Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007 – dep. 07/01/2008, Mo., Rv. 238602; Sez. 3, n. 21744 del 26/04/2005 – dep. 09/06/2005, P.M. in proc. Duranti ed altri, Rv. 23165201 Sez. 6, n. 17677 del 22/03/2016 – dep. 28/04/2016, Bo., Rv. 267313). Conseguentemente le gravi sofferenze di cui all’art.727, 2. comma sono quelle che superano la soglia di tollerabilità rapportata alle caratteristiche etologiche e all’habitat naturale dell’animale, senza che ciò implichi la necessaria sussistenza di una sottostante normativa anche soltanto regolamentare volta a disciplinare, per la cura del benessere dell’animale, la detenzione, posto che il precetto penale contenuto nell’art. 727, comma 2. c.p., non è di certo integrato, come già chiarito da questa Corte, da tali fonti normative, (cfr. la sentenza n.37859 del 4.6.2014, citata).

Ciò posto, deve ritenersi che la sentenza impugnata sia immune da censure avendo fatto buon governo dei sovraesposti principi interpretativi. Correttamente ha ritenuto rispondente alla fattispecie incriminatrice dell’art.727 c.p. la detenzione di un uccello all’interno di una gabbia dalle dimensioni particolarmente ridotte rispetto alla sua stazza, tale da non consentirgli neppure la piena apertura delle ali, né una sia pur modesta possibilità di movimento anche in ragione della presenza di un treppiede e di trespoli al suo interno che ne restringevano ulteriormente il campo, e senza che le condizioni igieniche della vaschetta per l’acqua gli consentissero la pulizia delle piume, del tutto irrilevante risultando l’assenza di lesioni o l’integrità delle sue condizioni di salute. Invero il bene giuridico protetto non è costituito, a differenza del delitto previsto dall’art.544-ter c.p., dall’integrità fisica dell’animale, bensì dalla sua stessa condizione di essere vivente perciò meritevole di tutela in relazione a tutte quelle attività dell’uomo che possano comportare, anche soltanto per indifferenza o negligenza od incuria, l’inflizione di inutili sofferenze. Con motivazione lineare e logicamente coerente il Tribunale ha ritenuto che la natura di rapace notturno, quand’anche comporti, in assenza di linee guida sui gufi reali, l’abitudine per il volatile di restare per lo più appollaiato in attesa della preda, non esclude una condizione di sofferenza trattandosi pur sempre di un volatile, comunque avvezzo a sia pur brevi voli nella quotidianità e comunque ad una condizione di fisiologica mobilità, di talché le condizioni di detenzione in cui veniva tenuto erano del tutto incompatibili con la sua natura.

3. Manifestamente infondato risulta il terzo motivo. Il Tribunale ha puntualmente preso in esame le eccezioni svolte dalla difesa in ordine alla mancanza di un titolo di proprietà e di custodia dell’uccello in capo all’imputato, ritenendone correttamente l’irrilevanza. Invero il reato di cui all’art.727 c.p. può essere commesso non soltanto da chi abbia la proprietà dell’animale o abbia un incarico formale di custodia, ma implicando soltanto un rapporto di detenzione in senso civilistico ben può essere commesso da chiunque detenga l’animale anche solo occasionalmente (Sez. 3, n. 6415 del 18/01/2006 – dep. 21/02/2006, Bo., Rv. 233307).

4. La stessa sorte ha anche il quarto motivo. Sulla scorta del costante orientamento di questa Corte deve ribadirsi che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62 bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice di merito con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, e quindi anche sui soli elementi ritenuti ostativi alla concessione del beneficio la cui configurabilità preclude la disamina degli altri parametri dell’art.133 c.p. di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. ex plurimis Cass, Sez. 2 n. 3609 del 18/01/2011 Rv. 249163, Cass., Sez. 6 n.42688 del 24/09/2008, Ca., Rv. 242419, Cass. Sez. 6 n.7707 del 04/12/2003, An., Rv. 229768). Avendo la sentenza impugnata sottolineato con riferimento alla personalità dell’imputato l’esistenza di numerosi precedenti penali, senza che risultino essere stati indicati dalla difesa pretesi fattori attenuanti, la censura svolta deve essere dichiarata inammissibile. Lo stesso dicasi in relazione al diniego della sospensione condizionale della pena, anch’esso oggetto di sindacato discrezionale del giudice di merito e del pari motivato in ragione dei precedenti penali dell’imputato, senza che alcuna specifica doglianza sia stata sollevata al riguardo.

5.Manifestamente infondato è anche il quinto motivo. Condizione indefettibile per l’ammissibilità del ricorso per Cassazione è infatti, come reiteratamente affermato da questa Corte nell’interpretazione dell’art.568, comma 4 c.p.p., che l’impugnazione sia sorretta da un interesse “concreto” ed “attuale”, volto cioè ad ottenere una decisione non solo teoricamente corretta ma anche praticamente favorevole per l’imputato. Dunque, l’interesse richiesto quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione immediata più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente. Il fatto che l’art.240, 3. comma c.p. escluda la confisca sulle cose o sui beni appartenenti a persona estranea al reato non attribuisce alcun diritto all’imputato di ottenere la restituzione di beni eventualmente confiscati fuori dalle condizioni di legge: nessun interesse può pertanto ravvisarsi in capo a costui, spettando esclusivamente al proprietario la facoltà di richiederne la restituzione nelle forme consentite dall’ordinamento processuale, costituito dall’incidente di esecuzione.

Il ricorso deve essere in conclusione rigettato, seguendo a tale esito, a norma dell’art.616 cod.proc.pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone la rettificazione del dispositivo della sentenza impugnata relativamente alla pena pecuniaria che indica in Euro 1.200 di ammenda in luogo di Euro 1.200 di multa.

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