Daniel Mirlea / Unsplash+

La sofferenza dei pitoni allevati per produrre beni di lusso

Le ultime indagini documentano brutali intorno a questi animali, la cui pelle è considerata pregiata dall'industria della moda.
Mario De Masi

Mario De Masi

Laureato in Giurisprudenza, attualmente lavora come funzionario amministrativo al Ministero delle Cultura. Convinto sostenitore dei diritti degli animali, è attivista di Spazio Animale e volontario per ALI.

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La pelle di pitone rappresenta un materiale pregiato e di lusso.

Questa è una delle descrizioni che possiamo ritrovare nei negozi o sul web che vendono borse, guanti, scarpe, portadocumenti, cinture, giubbotti, bracciali. Molte persone, spesso famose, sfoggiano oggetti di lusso in pelle di pitone.

Accanto all’utilizzo della pelle ricavata dall’industria zootecnica (es. bovini o suini) c’è, infatti, anche la produzione delle cosiddette “pelli esotiche”, derivanti da rettili e pitoni.

Il pitone birmano (P. bivittatus) e il pitone reticolato (P. reticulatus) sono due tra le più grandi specie di pitoni con oltre 10 metri di lunghezza e speranza di vita di circa 20-25 anni e sono tra le più maltrattate e sfruttate a causa di questa tendenza.

Nel Vietman e nel mondo, oltre 1 milione di pitoni vengono allevati principalmente per il commercio della pelle (LAV, 2022).

Negli anni numerosi video e denunce hanno mostrato la realtà che si cela dietro i prodotti ricavati dalla pelle di pitone, vittime di brutali maltrattamenti.

I pitoni possono sia essere catturati nei loro habitat naturali potendo causare danni agli ecosistemi oppure essere allevati, in maniera intensiva, per massimizzare i guadagni. Già di per sé le condizioni intensive sono fonte di stress, dolore, sia fisico che psichico, ma il peggio avviene durante le uccisioni.

Per facilitare il processo di uccisione, come si dirà in seguito, è emerso che questi serpenti vengano ammassati e chiusi in grandi sacchi di telo/cotone e trasportati nei luoghi dove verranno uccisi attraverso modalità particolarmente cruenti.

Una dei metodi è lo scuoiamento dopo averli letteralmente gonfiati con l’aria. La scena è stata documentata grazie ad un’investigazione della PETA:

Un uomo prende un pitone dal sacco, uno dei tanti allineati per terra, in cui è rinchiuso. Gli lega la bocca con un nastro di gomma. Poi fa la stessa cosa con la parte terminale del corpo, quella dell’ano. Dopo uno stordimento con una scossa elettrica provocata da una batteria d’auto, incastra un tubo collegato ad un compressore. E inizia a pompare aria. Il serpente si gonfia come un palloncino. L’addetto attende e si mette a saltellare sul corpo dell’animale che si gonfia mentre gioca con il cellulare, come farebbe per distribuire l’aria di un materassino gonfiabile al mare. Dopo qualche minuto il pitone muore, tra sofferenze che si possono solo immaginare. Quando l’animale è morto — o forse no perché la coda dà ancora cenni di movimento, ma non è possibile capire se si tratti di agonia o riflessi post mortem — l’uomo inizia la seconda parte del suo lavoro, quella per cui tutto questo si fa: con un taglio netto squarta il rettile e separa la pelle da tutto il resto. Il resto viene buttato in acqua, non prima che parti di sangue miste a interiora si spargano sul pavimento e sui piedi dell’addetto, che lavora scalzo e senza alcun tipo di protezione, neppure un paio di guanti.

La scena sopra descritta pare che rappresenti una delle prassi utilizzate per uccidere e scuoiare i pitoni, ma non è l’unica.

Le investigazioni della PETA, da ultimo rese note dall’associazione, hanno documentato anche martellate alla testa e/o situazioni in cui gli animali vengono immobilizzati e scuoiati con asce o coltelli mentre sono ancora coscienti.

Nel mattatoio, i dipendenti colpivano sulla testa i pitoni con un martello e li appendevano a un’impalcatura, inchiodandogli la testa su una tavola di legno, il tutto mentre gli animali erano completamente coscienti. Dell’acqua veniva poi pompata nei serpenti attraverso la bocca e l’ano prima di scuoiarli, presumibilmente mentre erano ancora vivi.

Il mercato della “pelle esotica” è al centro di un vuoto normativo, poiché le poche norme applicabili risultano essere soltanto le raccomandazioni dell’OIE (Organizzazione Mondiale della Sanità Animale) che non hanno un
effettivo riscontro data l’assenza di controlli e di disposizioni legislativi ad hoc.

A questo quadro si aggiunge il mercato clandestino che comporta la cattura e uccisione di pitoni ed altre specie protette. Ne è un prova il recente caso riguardante un imprenditore fiorentino di 60 anni denunciato dai finanzieri in servizio all’aeroporto ‘Galilei’ di Pisa per esportazione e commercio illegale di animali protetti e sanzionato con 20 mila euro di multa.

Attualmente, vi sono ottime alternative come la canapa, il cotone, il muskin (un derivato dei funghi), la vegea (la “pelle” ottenuta dai residui della vinaccia) ed altri materiali. Sono più sostenibili, meno inquinanti e che non sono causa si sofferenza.

Come consumatori possiamo fare molto con le nostre singole scelte quotidiane che influenzeranno, inevitabilmente, il mercato, la politica e le Istituzioni (si pensi al Regolamento europeo n. 1523/2007 che ha vietato la commercializzazione, l’importazione e l’esportazione, nell’Unione Europea, di pellicce di cani e gatti e di ogni altro prodotto che ne contenga inserti o parti delle loro pellicce).

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