La sentenza del TAR Lombardia fa riemergere un divieto dimenticato
La Lega per l’Abolizione della Caccia (LAC) ha ottenuto un risultato molto importante a seguito di un lungo contenzioso con l’amministrazione della Regione Lombardia. Con la sentenza n. 1516 del 2 maggio 2025, emessa dal TAR Lombardia, è stato disposto il divieto dell’esercizio dell’attività venatoria su 475 valichi montani, per un raggio di almeno 1.000 metri dagli stessi. Per capire meglio la portata della sentenza è necessario fare un passo indietro e mettere a fuoco la struttura della legislazione venatoria in Italia.
La Legge 11 febbraio 1992 n. 157 è la legge quadro nazionale e fonte principale della regolamentazione della pratica venatoria e recepisce alcune direttive UE sul tema[1]. Il suo articolo 1 prescrive che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale. La regolamentazione della caccia, quindi, si configura quale deroga e si innesta all’interno di un bilanciamento di interessi fondamentali come, appunto, la tutela della fauna e la salute pubblica.
La legge, all’art. 9, stabilisce le competenze rispettive delle regioni e delle province in tale ambito. In particolare, alle regioni spettano funzioni amministrative di programmazione e di coordinamento della pianificazione faunistico-venatoria, insieme a compiti di orientamento e controllo. I piani faunistico-venatori, previsti all’art. 10, comprendono tutto il territorio agro-silvo-pastorale nazionale e hanno come scopo quello di regolamentare la caccia sulla base di diversi interessi, tra cui la conservazione delle capacità riproduttive di alcune specie e il contenimento naturale di altre e il rispetto dei tempi di riproduzione e di cura della prole. Le province si occupano dell’attuazione dei suddetti piani. Le disposizioni emanate dalle regioni e dalle province devono in ogni caso rispettare i principi predisposti dalla L. 157/2992.
Tra le diverse indicazioni della legge, l’art. 21, comma 3, prescrive che “La caccia è vietata su tutti i valichi montani interessati dalle rotte di migrazione dell’avifauna, per una distanza di mille metri dagli stessi”. Con l’intento di vedere finalmente questo divieto rispettato, la LAC ha iniziato una lunga serie di ricorsi per contrastare la passività e la parzialità della Regione Lombardia nell’attuazione delle disposizioni normative. Nel 2024, infatti, il Consiglio di Stato ha commissariato la Regione Lombardia affidando all’ISPRA[2] il compito di istituire i valichi montani da sottoporre alla tutela. Tuttavia, il Commissario ne ha individuati, a fronte di 475 valichi montani, solamente 19 da sottoporre a tutela immediata e 15 a monitoraggio per almeno un anno. Per tale riduzione Il TAR ha formulato una richiesta di chiarimenti. Con la sentenza n. 1516/2025 la limitazione è stata reputata illegittima in quanto non supportata da ragioni scientifiche e in contrasto con l’interpretazione dell’art. 21, comma 3, emersa dalla sentenza n. 254 del 2022 della Corte costituzionale. Tale sentenza si innesta nell’ambito della lunga battaglia giudiziaria che ha coinvolto le Regione Lombardia che, nell’art. 43, comma 3 della L.R. n. 26 del 1993 stabiliva un divieto di caccia sui valichi montani attraversati dalla fauna migratoria solo all’interno della zona di maggior tutela della zona faunistica delle Alpi. Tale disposizione garantiva una tutela minore rispetto a quella garantita dall’art. 21, comma 3 della L. 157/1992, fonte normativa di grado superiore, e di conseguenza è stata dichiarata incostituzionale. Di conseguenza, L’interpretazione considerata applicabile dal TAR nel caso di specie è quella dell’inderogabilità del divieto di caccia su tutti i valichi montani interessati dalle rotte di migrazione dell’avifauna.
Il malumore generato nei membri delle lobby della caccia, e dei partiti politici che storicamente si posizionano in linea con le loro posizioni, ha velocizzato la promessa di modifiche alla L. 157/1992. L’escamotage trovato è stato l’inserimento dell’apposito collegato alla legge di Bilancio di fine 2024, che ne permetterà la discussione in maniera prioritaria durante l’anno corrente.
Continua quindi la lotta per mantenere la pratica venatoria subordinata ai limiti imposti dalla legge e a interessi fondamentali come la tutela dell’avifauna. Come ricorda la sentenza in esame, infatti,l’Italia svolge un ruolo fondamentale nelle migrazioni degli uccelli, grazie alla sua posizione geografica strategica tra l’Europa e l’Africa. Durante la migrazione, infatti, gli uccelli tendono a utilizzare alcuni percorsi preferenziali, come appunto i valichi, che consentono di transitare da una valle all’altra con un minor dispendio di energia. Durante questa fase gli uccelli si trovano in una fase cruciale del loro ciclo biologico annuale e in condizioni di vulnerabilità.
L’applicazione di contravvenzioni in materia di caccia e la non applicabilità delle cause di non punibilità e delle circostanze soggettive attenuanti
La Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso avverso a una sentenza della Corte di Appello di Bologna che aveva condannato un cittadino per tre contravvenzioni in materia di caccia, previste dalla L. 157/1992:
- Art. 30, comma 1 lett. e), in relazione all’art. 3, che punisce l’uccellagione, tale pratica viene definita dal Vocabolario Treccani come la tecnica di catturare vivi gli uccelli selvatici con trappole, reti, lacci, etc.;
- Art. 30, comma 1 lett. h), in relazione all’art. 21, comma 1, lett. r), che punisce chi esercita la caccia con l’ausilio di richiami vietati;
- Art. 30, comma 1 lett. b), in relazione all’art. 2, comma 1 lett. c) che punisce chi abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli compresi nell’elenco.
La difesa ha formulato diverse censure, quelle più inerenti al merito dei fatti riguardavano la mancanza di motivazione a supporto dell’affermazione di responsabilità penale. La Corte ribadisce che il reato di uccellagione costituisce fattispecie di pericolo a consumazione anticipata: per l’integrazione è quindi sufficiente qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli, non rendendosi necessaria l’effettiva apprensione dei volatili. Inoltre, la Corte precisa che l’atto deve essere effettuato con mezzi diversi dalle armi da sparo e con potenzialità offensiva indeterminata tra i quali, come già determinato da altre sentenze, rientrano anche le reti.
In merito alla fattispecie dell’esercizio della caccia con l’ausilio di richiami vietati, la Corte stabilisce che per la sua integrazione è sufficiente che la persona utilizzi un richiamo acustico in grado di funzionare e che la sia in «atteggiamento da caccia». Tale requisito di si configura non solo in caso di effettiva uccisione o cattura della selvaggina ma anche con il compimento di qualunque attività preliminare o diretta alla caccia.
Infine, la Corte ritiene infine che la contravvenzione di abbattimento, cattura o detenzione di mammiferi o uccelli compresi nell’elenco di cui all’art. 2 della L. 157/1992 è dimostrata dalla semplice detenzione di frosoni e pettirossi.
La difesa ha inoltre lamentato il difetto di motivazione in ordine alla richiesta di riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p., in relazione alla quale si erano evidenziati la mancanza di abitualità della condotta, lo stato di incensuratezza dell’imputato, l’età dello stesso e la minima lesività del fatto. La Corte ha ritenuto corretta la non applicazione della causa di non punibilità motivata dalla pluralità delle violazioni accertate e degli strumenti di cui l’imputato era in possesso per la cattura di uccelli la cui caccia è vietata. In particolare, è interessante notare la non rilevanza della circostanza soggettiva e attenuante dell’età dell’imputato: secondo uno studio dell’Università di Urbino[3], infatti, solamente lil 5,4% dei cacciatori in Italia ha tra i 18 e 30 anni, indicando un progressivo invecchiamento dei cacciatori. Tale riconoscimento avrebbe potuto un precedente preoccupante, che insieme al riconoscimento della particolare tenuità del fatto avrebbe potuto generare un progressivo svilimento del disvalore sociale della condotta.
Note
[1] Art. 1, comma 4, L. 157/2992: “Le direttive 79/409/CEE del Consiglio del 2 aprile 1979, 85/411/CEE della Commissione del 25 luglio 1985 e 91/244/CEE della Commissione del 6 marzo 1991, con i relativi allegati, concernenti la conservazione degli uccelli selvatici, sono integralmente recepite ed attuate nei modi e nei termini previsti dalla presente legge la quale costituisce inoltre attuazione della Convenzione di Parigi del 18 ottobre 1950, resa esecutiva con legge 24 novembre 1978, n. 812, e della Convenzione di Berna del 19 settembre 1979, resa esecutiva con legge 5 agosto 1981, n. 503.”.
[2] L’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) è un ente pubblico di ricerca, dotato di personalità giuridica di diritto pubblico e dotato di ampia autonomia, istituito con il Decreto del 21 maggio 2010 n. 123 del Ministero dell’Ambiente e per la Tutela del Territorio e del Mare. L’ISPRA fornisce consulenze scientifiche in ambito ambientale al Legislatore e al Governo, monitora ed effettua controlli sul rispetto delle risorse naturali e infine produce analisi di dati e studi su temi ambientali.
[3] Caccia e cacciatori: ricerca Fiocchi – Università di Urbino”, pubblicato il 23 febbraio 2016.