Non si può certo sottostimare la valenza denigratoria di tutte le bestemmie che ne usano il nome per insultare divinità da cui ci si aspetterebbe un decisamente maggiore accudimento e magari anche qualche favore; ma anche un intercalare un po’ fuori moda non si astiene dall’insulto a lui diretto: porco cane e porca miseria, ma persino Maremma maiala, nel fioritissimo linguaggio toscano.

È all’interno di questa totale denigrazione, di una diffamazione ingiusta e indegna che abbiamo deciso che quelli che consideriamo i nostri più bassi istinti e il richiamo ad una lussuria peccaminosa non appartengano in verità a noi come specie (eletta), ma vadano buttate fuori, proiettate su qualcun altro che raccolga su di sé l’indecenza, che mettiamo in pratica, ma non ci inorgoglisce. Eccolo lì allora il maiale, ricettacolo di sozzure, indegno e turpe: un vero porco, insomma, simbolo di carnalità lasciva, bestia immonda che grugnisce e tiene sempre il muso a terra, e non alza mai lo sguardo verso l’alto, verso ciò che è puro, teso al divino, come facciamo noi. E’ un gioco forte di proiezioni, di cui gli animali sono spesso l’oggetto: ne facciamo simboli e proiettiamo su di loro ciò che rifiutiamo di noi; nel maiale appunto anche gli aspetti di una sessualità che giudichiamo immonda. Dalla ferita narcisistica (così la chiamava Freud) infertaci dalla consapevolezza darwiniana che i nostri avi sono scimmie, quando ci vantavamo invece di essere stati forgiati dal tocco divino, ci difendiamo puerilmente continuando a rifiutare le nostre parti oscure, le nostre ombre, che ributtiamo su altri. Ci crediamo giganti e siamo nani; e di tutto questo gli animali pagano l’inaccettabile prezzo.

La trasformazione del maiale in simbolo di lussuria è accanimento che potenzia la sua diffamazione e giustifica ulteriormente gli orrori di cui lo rendiamo vittima. L’atteggiamento del movimento #metoo contro le molestie sessuali, in tutto questo, lascia sconcertati: nel corso della settimana della moda di New York, il 10 febbraio, la stilista francese Myriam Chalek, direttrice creativa di American Wardrobe, ha fatto sfilare modelle, alcune delle quali accessoriate con ali a riferimento di donne angelicate, ammanettate a uomini, i loro violentatori, il cui viso era coperto da maschere di maiale: queste rappresentazioni accompagnate da slogan del tipo #balancetonporc, #denunciailtuomaiale, #fanculomaiale, ripresi in questi giorni dal quotidiano tedesco, sono insulti non ai molestatori, non ai maiali, ma all’intelligenza di ognuno. Non c’è niente di nuovo sotto quel sole che splendeva già nel Medio Evo: in alcuni Musei della Tortura, che vanno prolificando in tutta Italia, è possibile vedere la Maschera d’infamia: si tratta di una delle cosiddette Maschere di Derisione, che aveva la forma di testa di maiale oppure di asino, che doveva essere indossata dal condannato di turno per umiliarlo pubblicamente; era un supplizio psicologico usato per privare della dignità la vittima, aggiungendo il dileggio al supplizio vero e proprio, che veniva consumato sotto la maschera stessa. A fondo bisognerebbe riflettere sul fatto che il pubblico, lungi dal provare un qualunque moto di ribellione contro tale accanimento, infieriva ergendosi a fustigatore: secondo un meccanismo psicologico dalla valenza dirompente, considerare l’altro meritevole del castigo, impedisce pietà ed empatia.
Il fatto che oggi le donne, donne fiere, vittime rinforzate, sopravvissute indomabili, alla ricerca della propria dignità e della condanna di chi cerca di insidiarla, usino l’accostamento maiale–lussuria lascia basiti: conoscenze, o meglio ignoranze etologiche a parte, nessun movimento può condurre una battaglia per i propri diritti calpestando ferocemente quelli di altri, che sono sempre ancora un po’ più deboli: e il primo diritto è quello al rispetto. La strada per la consapevolezza è lunghissima, è evidente; nel percorso non è però tollerabile che i più torturati, dileggiati, oppressi tra gli animali debbano prendere su di sé il peso e la condanna di delitti altrui: perché l’ulteriore diffamazione di cui sono oggetto non farà che ricacciarli ancora un po’ più giù nella scala dei diritti, il cui fondo non sembra mai raggiunto. Il modello così proposto si allontana da quello rispettoso, ugualitario, pacifico per riproporre quello abusato di carnefice e vittima, in cui dietro l’obiettivo consapevole di porre riparo all’ingiustizia si intravede una per quanto inconscia accettazione dei rapporti di potere. Tutto questo non fa che confermare che nessuna visione della vita che non contenga al proprio interno gli altri animali non può che essere parziale e ingiusta nel momento stesso in cui si ferma ai confini illusori dell’umano. E con colpevole dimenticanza ignora il ruolo che le donne individualmente e politicamente hanno rivestito nella storia passata e recente nel farsi carico della questione animale, che hanno accostato a quella femminile, in nome della loro empatia, dei loro convincimenti, della loro capacità, anche, di “sentirsi tutt’uno col dolore degli altri”: lo diceva Rosa Luxembourg che non era Myriam Chalek, dallo strazio del carcere di Bratislava, che non era una passerella di moda di New York city.

Che dire? In questo mondo — scrive un bambino di Napoli sulle pagine di Nessun porco è signorina — gli animali credono che c’è solo l’inferno, perché vivono su questa terra e non immaginano che c’è anche il paradiso In paradiso gli parlerò e gli dirò “Scusate se vi abbiamo trattato male”.
In attesa di un improbabile paradiso in cui chiedere scuse tardive, è dolce il pensiero di Giancarlo De Cataldo quando si chiede “Chissà se per tutti i piccoli porcellini il grugnito di mamma scrofa è come la voce dell’angelo, chissà come se l’immaginano i maialini, un angelo”. Di certo libero, di sognare, di portarli a correre là dove si gioca.

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