DOTT.SSA MARTA PACCAGNELLA – Strumenti di tutela sostanziale e processuale
L’animale in cattività, l’animale domestico, l’animale d’affezione e da compagnia, l’animale impiegato nelle esibizioni circensi, nelle attività sportive e nella caccia, l’animale preda nella attività di caccia e di pesca, l’animale che fornisce all’uomo un aiuto terapeutico, quello da studio scientifico e sperimentazione, l’animale impiegato per la riproduzione o che ci fornisce uova e latte, persino l’animale in sé destinato alla alimentazione sono sempre da considerare soggetti “deboli”, soggetti “senzienti” in grado di provare sensazioni e sentimenti, di soffrire, di gioire, di deprimersi ed esaltarsi, proprio come lo siamo noi esseri umani che abbiamo colonizzato l’intero pianeta e ne stiamo sfruttando e consumando irreparabilmente le risorse ai danni delle generazioni che verranno dopo di noi.
Anche nell’antichità ed anche in diversi contesti socio-culturali è per certi aspetti assai meglio conosciuto e riconosciuto il dovere di rispettare l’ambiente e tutti gli esseri viventi che lo popolano. Illustri pensatori e filosofi ci hanno ammonito riguardo al fatto che il nostro grado di civiltà si misura attraverso il rispetto portato agli esseri indifesi e fra essi vi sono di certo gli animali, ormai tutti.
Si pensi del resto al rispetto “sacrale” portato ai livelli estremi da alcune religioni induiste come la Giainista che predica un’assoluta non violenza ed il rispetto della vita anche nelle sue dimensioni più infinitesimali, praticando un’alimentazione vegetariana nella sua forma più radicale.
Non possiamo nel contempo nasconderci che altrettanto antiche religioni e culture – anche profondamente diverse come può essere per la tradizione ebraica e musulmana – ci chiedono di tollerare l’uccisione di animali attuata con modalità che per noi occidentali è normale considerare crudeli, laddove ad esempio non è considerato kosher o halal lo stordimento dell’animale da macello, prima della iugulazione. Si tratta di regola religiosa che verosimilmente trae origine da ragioni igienico-sanitarie finalizzate a prevenire la trasmissione di malattie: l’animale destinato all’alimentazione deve godere di piena salute e la prima dimostrazione di questo è la sua vitalità. Lo stordimento ante mortem – praticato nella moderna macellazione per evitare maggiori sofferenze all’animale – impedisce appunto di percepirne vitalità e buona salute.
Se da un lato possiamo rammaricarci del progressivo depauperamento delle specie animali per effetto di politiche e comportamenti poco assennati e lungimiranti dell’uomo, dall’altro non possiamo negare che si è andata sviluppando nella società moderna la consapevolezza ed esigenza di disporre di precise regole di comportamento da osservare e fare osservare, e su questa linea è certo molto apprezzabile l’impegno che è stato profuso dalle amministrazioni locali per tutelare gli animali che vivono al nostro fianco e popolano le aree urbane, siano essi da compagnia o selvatici, e per dotarsi di dettagliati regolamenti.
In questa prospettiva è stato espresso un grande sforzo nel tentativo di conciliare le tanto diverse istanze sociali, non ultima quella della prevenzione delle malattie e della salute collettiva. Vi sono ad esempio specie appartenenti alla cosiddetta fauna sinantropica – quali roditori o piccioni – che possono veicolare infestazioni pericolose e dannose per la salute pubblica e per la salute degli stessi animali, sia domestici che d’allevamento.
Dunque – già tali ragioni – talvolta in modo radicale, talaltra cercando di contemperare il rispetto per le specie animali (ad esempio distribuendo mangimi che contengono sostanze contraccettive), siamo propensi a sacrificare la loro vita per tutelare la nostra o i nostri beni.
Non per questo sono comunque tollerabili e tollerate pratiche crudeli che nulla hanno a che vedere con la protezione ambientale, come — ad esempio — l’uso di piccioni vivi come esche da pesca: sull’argomento sono intervenute più decisioni della Corte di Cassazione a sancire definitivamente il principio secondo cui, in materia di pesca e di caccia, non può essere invocata la normativa speciale per escludere la sussistenza della fattispecie penale ed affermare la legittimità di comportamenti che non corrispondono a situazioni naturali, sebbene sfruttino istinti naturali, come la propensione di determinati pesci a cibarsi di altri animali vivi.
E va però detto che – a ben guardare – l’analisi globale delle tantissime aree tematiche che debbono essere prese in necessaria considerazione se si vuole ragionare di “tutela degli animali” ci conduce alla aspirazione a rendere l’ambiente — urbano e non — il migliore e più vivibile possibile perché non si tratta di interessi contrapposti, ma del tutto comuni e condivisi.
La presenza degli animali al nostro fianco e liberi nell’ambiente non solo è e deve essere lo specchio della salubrità dell’ambiente. Non di rado assume essa stessa un valore terapeutico vero e proprio attraverso la vicinanza, il calore e l’affetto che gli animali da compagnia sono in grado di portare alle persone sole ed anziane, o ai bambini malati attraverso l’accesso anche in ambiente ospedaliero; ai soggetti svantaggiati portatori di handicap che possono ricavare — ad esempio — grandi benefici da attività svolte con èquidi.
Sono stati elaborati dai Comuni regolamenti ricchi di informazioni ed iniziative improntate alla difesa degli animali (si pensi al censimento delle colonie feline, alla organizzazione di aree dedicate ai cani per favorirne l’attività fisica o zone urbane nelle quali può essere consentito distribuire alimenti anche ai volatili, di tipologie adeguate) che doverosamente si coniugano alla tutela delle altre primarie esigenze sociali, prima fra tutte quella della salute pubblica, ma anche – ad esempio – alla salvaguardia del riposo e del benessere collettivo, della prevenzione dei rumori e delle esalazioni moleste. E non per questo, nonostante i citati interessi diffusi, né gli enti locali né la giurisprudenza riconoscono il diritto di infliggere sofferenze agli animali, ad esempio impiegando museruole per un tempo prolungato o utilizzando collari “antiabbaio” che rilasciano scosse elettriche per ridurre al silenzio i cani, condotte che sono infatti perseguibili e sanzionate.
Le norme di carattere amministrativo e regolamentare dettano regole precise finalizzate a tutelare gli animali ed attribuiscono al Sindaco ed alla Polizia municipalizzata, guardie zoologiche, venatorie e forestali, associazioni che hanno come finalità la protezione degli animali il compito di garantire il rispetto ed adottare misure a salvaguardia che possono (o debbono) comportare interventi in urgenza, irrogazione di sanzioni amministrative e, nelle situazioni più gravi, denuncia e sequestro penale in via di urgenza, richiesta di iniziative da parte del P.M. e del giudice per le indagini preliminari i quali, attraverso lo strumento del sequestro prevenivo, possono promuovere ed adottare interventi estremamente incisivi e tempestivi.
Del resto — come ribadito nella giurisprudenza della Corte di Cassazione con sentenza Sez.4 n.18167 del 31/1/2017 — qualora nessun ente o associazione faccia richiesta di affidamento di animali sequestrati o confiscati, ai sensi dell’art. 19 quater disp. att. c.p., né comunque offra adeguate garanzie di poterli tenere in modo adeguato, l’obbligo di far fronte al loro mantenimento, dopo la confisca, grava proprio sul Comune, in quanto ente che vanta una posizione di garanzia rispetto al benessere degli animali presenti sul territorio.
Nel settore penale è consistente il numero di decisioni che possiamo rinvenire negli archivi della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ci offrono la misura della gran varietà di condotte aberranti che gli esseri umani sanno porre in essere (anche) verso gli animali e ci danno la misura degli interventi sanzionatori a carico degli autori di condotte di reato. Interessa maggiormente in questa sede porre attenzione alle fasi che precedono il processo e la eventuale condanna definitiva, ovvero agli strumenti di tutela approntati dall’ordinamento ed ai soggetti chiamati ad intervenire nel loro percorso applicativo.
L’intervento sanzionatorio — in fondo — non è che il momento successivo e secondario rispetto alla evidente esigenza di intervenire con tempestività ed incisività sul terreno della prevenzione o – quanto meno – della risposta immediata dell’ordinamento per porre rimedio ai comportamenti offensivi e lesivi che spesso possono perdurare a lungo nel tempo e restare “sommersi”, dal momento che frequentemente si svolgono in ambiente privato, spesso poco accessibile e poco esposto agli occhi indiscreti, dal quale non è detto che filtrino facilmente le notizie di reato e che vi siano soggetti capaci e pronti a coglierne i segnali.
La reazione sociale non sembra più essere sporadica ed occasionale, spesso l’attenzione rivolta al cortile o al terrazzo del vicino di casa che offrono l’informazione preziosa e l’occasione per il controllo e l’intervento “liberatorio” dell’animale sofferente e maltrattato, esposto alle intemperie o al sole cocente, malnutrito e non curato nella malattia, percosso e maltrattato, allevato in ambienti ristretti ed igienicamente scadenti.
Nessuno oggi pensa più che si tratta di “affari altrui” mentre questa era l’originaria impostazione del Codice Rocco che esprimeva una concezione di animale come “cosa” di proprietà dell’uomo che ne è detentore e che – a certe condizioni può persino essere abbattuto a tutela del patrimonio – visione la cui sintesi è espressa nell’art.638 cod. pen. che punisce chi senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 309 o con una pena da sei mesi a quattro anni, se il fatto — per cui in questo caso si procede di ufficio — è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Si tratta per giunta di norma che ammette non solo estensioni dettate dal sempre relativo concetto di “necessità” che può comprendere – quanto meno nella interpretazione soggettiva sufficiente a lasciare indenne da condanna penale per difetto di dolo – ma che già nel corpo della stessa norma vede al co.3 esplicitata una previsione in deroga secondo cui “Non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno”.
Nel presente non prevale più tale visione sebbene tutt’ora, in assenza di diverse disposizioni normative che assimilino in tutto e per tutto i diritti degli animali a quelli dell’essere umano, come potrebbe essere – ad esempio – per la sottrazione accompagnata dalla privazione della libertà (“sequestro” piuttosto che furto o appropriazione indebita), si possa profilare l’esigenza di fare applicazione delle norme e della giurisprudenza più risalenti che riconoscevano all’animale lo status di “cosa”, oggetto di “detenzione” da parte dell’uomo (o dello Stato – la fauna selvatica), possibile oggetto di danneggiamento (638 c.p.), di furto, anche aggravato quanto ai capi raccolti in gregge o mandria, o ai bovini o equini (625 n.8 c.p.); di appropriazione indebita; possibile oggetto di “smarrimento” e quindi di “apprensione”. Il tutto anche in forma di tutela dell’animale, oltre che del suo proprietario.
Gli animali sono considerate “cose”, assimilabili — secondo i principi civilistici — alla “res”, anche ai fini della legge processuale, e, pertanto, ricorrendone i presupposti, possono costituire oggetto di sequestro preventivo. Sez. 5, Sentenza n. 231 del 11/10/2011
Nel vigore dell’abrogato art.647 c.p., l’acquisizione del possesso di un cane che si fosse “smarrito” poteva essere fatta rientrare fra le ipotesi di “caso fortuito” (difficilmente configurabile però in presenza di microchip di identificazione).
Oggi l’art. 925 cod. civ. prevede l’acquisto della “proprietà” dell’animale mansuefatto da parte di chi se ne sia impossessato qualora l’animale non sia stato reclamato entro venti giorni da quando il proprietario ha avuto conoscenza del luogo ove esso si trova. (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18749 del 05/02/2013). Di converso, ove il proprietario ne reclami la restituzione, l’inosservanza volontaria potrebbe tornare ad integrare una delle fattispecie penali poste a tutela della proprietà e del possesso.
Ancora entro i limiti ristretti di questa prospettiva privatistica ed obsoleta si poneva il riconoscimento che condotte lesive e l’uccisone ingiustificata di animali potevano implicare danno morale oltre che economico ed essere sotto tale profilo passibili di sanzione perché “ferivano” i sentimenti dell’uomo, in quanto legato all’animale.
L’evoluzione degli ultimi decenni ha visto l’affermarsi dei principi recepiti dal diritto internazionale che per primo li ha formalmente sanciti:
– nella Dichiarazione Universale dei diritti degli animali, proclamata a Parigi presso la sede dell’Unesco il 15/10/1978, con la quale è stato affermato il principio cardine secondo cui “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza”;
– quasi 10 anni più tardi, nella Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13 novembre 1987 e successivamente ratificata nel nostro Paese con legge nazionale n. 201 del 2010 (addirittura 23 anni dopo) sul traffico illecito degli animali da compagnia in cui è sancito “che l’uomo ha l’obbligo morale di rispettare tutte le creature viventi”, ed è stata affermata “l’importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”;
– 20 anni dopo la Convenzione di Strasburgo, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (firmato a Lisbona dai 27 Paesi dell’Unione il 13 dicembre 2007, ratificato però prime dall’Italia prima del 2010, con legge n. 130 del 2008 ed in vigore dall’1 gennaio 2009) con cui è stata riconosciuta agli animali, in base all’art.13, la condizione di esseri “senzienti” ed è stato imposto al legislatore comunitario di tenere in considerazione tale status giuridico nel processo di formazione delle norme comunitarie.
Prima ancora della Dichiarazione Universale dei diritti degli animali, in attuazione della Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del regolamento (CEE) n. 3626/82 era stata introdotta in Italia normativa speciale di cui alla L. 7 febbraio 1992, n. 150 che ha sancito divieti e sanzioni sia amministrative che penali in materia importazione, trasporto, detenzione (e tutte le ulteriori condotte connesse elencate nella legge) di esemplari di specie protette perché in via di estinzione o di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica.
Prima del riassetto del complessivo sistema penale attualmente vigente, solo l’art.727 c.p. (la cui versione attuale è appunto quella introdotta da art.1 L.189 del 2004) si arricchiva di modifiche introdotte con L.22.11.93 n.473 (norma peraltro in parte contestata laddove il testo previgente prevedeva la punibilità dell’incrudelimento sic et simpliciter mentre nella versione modificata diveniva punibile solo se realizzato “senza necessità”).
È invece successiva alla Dichiarazione Universale dei diritti degli animali ed alla Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo il 13 novembre 1987 (peraltro ratificata formalmente solo nel 2010) l’introduzione del Titolo IX bis del Libro secondo codice penale (con Legge 20 luglio 2004 n.189) — Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate — che introduce una più moderna concezione del mondo animale, nei cui confronti lo Stato deve garantire protezione e benessere; quindi codifica divieti e prescrizioni finalizzate alla tutela dell’animale in sè, la cui rappresentanza viene ora affidata non più o non solo a colui che ne è proprietario o detentore (o alla Stato per la fauna selvatica) ma ad altri soggetti riconosciuti dall’ordinamento – gli enti e le associazioni individuati in base a decreto ministeriale come previsto dalla norma di attuazione di cui all’art.19 quater disp. att. c.p. – ai quali “gli animali oggetto di provvedimento di sequestro o di confisca sono affidati, in quanto ne facciano richiesta”.
Accanto al privato che — in quanto detentore di animale addomesticato — è gravato da precisi doveri, anche soggetti pubblici o privati possono farsi portatori di rivendicazioni ed istanze, ovviamente all’occorrenza anche contro il titolare di diritti di natura privatistica, se questi sia proprio il soggetto al quale le condotte di reato appaiono addebitabili.
Una importante svolta è quindi individuabile nelle norme che tutelano gli animali indipendentemente dal loro legame con il singolo individuo, o a prescindere da esso, o addirittura in contrasto con esso.
È più fruibile di quanto si tende a pensare il potere di intervento con lo strumento del sequestro penale, di cui viene fatta pacificamente applicazione anche a fronte di fattispecie contravvenzionale come l’art. 727 c.p. (in situazioni non gravi al punto da delineare una delle fattispecie delittuose di cui al Titolo IX bis, ma pur sempre in condizione di “abbandono” o in condizioni incompatibili con la natura dell’animale, tali da essere “produttive di sofferenze”).
È stato ritenuto che l’animale – a propria tutela – sia suscettibile di confisca ai sensi dell’art.240 c.p. anche in relazione alla fattispecie contravvenzionale di cui all’art.727 c.p., pure se il provvedimento ablativo non è previsto dall’art.544 sexies c.p. (che menziona solo i delitti, non le contravvenzioni).
Del resto, anche se muoviamo dalla premessa che la confisca degli animali ha nella maggior parte dei casi una sostanziale finalità di tutela, non si vede perché non potrebbe comunque essere inquadrato il sequestro preventivo nell’alveo degli strumenti tipici essendone propria (anche) la finalità di prevenire la reiterazione di analoghe condotte di reato (sebbene con l’anomalia che lo stesso animale — oggetto passivo delle condotte di reato — sarebbe anche il destinatario del provvedimento cautelare, come di regola non accade per la parte offesa dal reato) .
Per quanto riguarda il procedimento penale in sé ed i poteri di rappresentanza, non sempre e non necessariamente associazioni ed enti di cui all’art.19 quater disp att. c.p. saranno chiamati nel giudizio quale “parte offesa del reato”. ma non vi è dubbio che questo sarà di significativo rilievo per la maggior parte delle ipotesi in cui si profilino condotte di reato poste in essere da individui che detengono – di fatto o in base a diritto – nella loro sfera di controllo le condizioni esistenziali dell’animale (o degli animali).
Accanto a questa posizione riconosciuta per legge, di notevole rilievo è inoltre il potere attribuito (come conferma la giurisprudenza della Corte di Cassazione) anche ad altri enti che abbiano tra le finalità perseguite in base a statuto la tutela degli interessi lesi dai reati previsti dal Titolo IX bis (Sez. 3, Sentenza n. 52031 del 04/10/2016) di costituirsi in giudizio avanzando iure proprio una pretesa risarcitoria: “In tema di reati commessi ai danni di animali, l’art. 7 della legge 20 luglio 2004, n. 189, nell’attribuire “ope legis” alle associazioni e agli enti individuati con decreto del Ministro della salute 2 novembre 2006 — per l’affidamento degli animali oggetto di provvedimento di sequestro o di confisca — la finalità di tutela degli interessi lesi dai reati previsti dalla stessa legge, non esclude la legittimazione a costituirsi parte civile di associazioni diverse, anche non riconosciute, che perseguano la stessa finalità e che deducano di aver subito un danno diretto dal reato.
In tema di affidamento degli animali sottoposti a sequestro è stato poi sancita anche la legittimità dell’affidamento provvisorio a privati degli animali oggetto di confisca e sequestro, effettuato nel corso del processo, in attesa di individuare gli enti ed associazioni che si dichiarino disponibili ad accoglierli, in quanto l’iniziativa non contrasta con la previsione di cui all’art. 19 quater disp. att. cod. pen.: “Infondata è .. la censura relativa alla confisca. Dispone invero l’art.19 quater disp.att. c.p. che gli animali oggetto di confisca e sequestro sono affidati ad enti o associazioni che ne facciano richiesta, individuati con decreto del Ministero della salute. Orbene il tribunale nel disporre la confisca si è riservato di provvedere con separata ordinanza all’affidamento agli enti che ne avrebbero fatto richiesta. L’affidamento provvisorio di alcuni cani a privati effettuato nel corso del processo nell’attesa dell’individuazione degli enti e dell’acquisizione delle loro disponibilità non contrasta con il disposto normativo posto che gli stessi enti affidatari li assegneranno poi a privati, come risulta dalla documentazione prodotta dalla parte civile” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22039 del 21/04/2010).
Infine, come ribadito nella giurisprudenza della Corte di Cassazione con sentenza Sez.4 n.18167 del 31/1/2017, va ricordato che nella sequenza delle garanzie previste dall’ordinamento, qualora nessun ente o associazione o privato faccia richiesta di affidamento di animali sequestrati o confiscati, ai sensi dell’art. 19 quater disp. att. c. p., né comunque offra adeguate garanzie di poterli tenere in modo adeguato, l’obbligo di far fronte al loro mantenimento, dopo la confisca, grava comunque in ultimo sul Comune, in quanto ente che vanta una posizione di garanzia rispetto al benessere degli animali presenti sul territorio.
Il Disegno di legge “Perilli – Maiorino” 19 febbraio 2019 si propone un riassetto generale della normativa ed un incremento ulteriore dei presidi a difesa del mondo animale in alcuni casi con apporti pregevoli seppure ancora non risolutivi di tutte le problematiche che attualmente la giurisprudenza si trova ad affrontare.
Oltre alla introduzione di nuove fattispecie ed alla abrogazione di altre, verrebbero inasprite svariate previsioni sanzionatorie (anche per l’illecita introduzione nel territorio dello Stato sia di animali da compagnia che di animali in via di estinzione). In particolare, per fattispecie di reato previste da normative speciali come l’art. 4 della L. 201 del 2004 relativamente al traffico di animali da compagnia verrebbe prevista l’introduzione di pena pecuniaria congiunta alla detentiva, con conseguente esclusione della possibilità di definire il procedimento mediante oblazione.
EÈ poi estesa – nel progetto di legge – la previsione dell’applicabilità delle pene accessorie di cui all’art. 544 sexies c.p. anche al decreto penale di condanna attraverso il quale si perviene di frequente a definire i procedimenti per violazione dell’art. 727 c.p..
Dovrebbe prevedere inoltre la risoluzione di un problema assai frequente che ancora non ha trovato indirizzo univoco inerente la possibilità o meno di affidare in via definitiva alle associazioni gli animali oggetto di sequestro, provvedimento che per sua natura è di carattere cautelare e che allo stato vede contrapposti diversi orientamenti interpretativi.
Sono tante peraltro le problematiche che si pongono in assenza di una previsione che svincoli in certa misura i provvedimenti adottati a tutela degli animali dall’esito del procedimento penale. Voglio solo esemplificare alcune problematiche interpretative: quid iuris se il procedimento viene poi archiviato, definito con oblazione, o per speciale tenuità del fatto ex art.131 bis c.p.?
Vi è un’ampia gamma di casi in cui il sequestro non sarebbe (o potrebbe non essere) destinato ad essere poi seguito da confisca in assenza di espressa previsione normativa e della conseguente sussistenza dei presupposti formali per farne applicazione, dal che dovrebbe discendere la restituzione all’avente diritto.
Tralasciando la considerazione che “speciale tenuità del fatto” potrebbe esser in linea di principio e nella maggior parete dei casi in contrasto con le fattispecie di cui ci occupiamo (e proprio l’art.131 bis c.p. – a scanso di dubbi – ce lo ricorda escludendo che l’offesa possa essere ritenuta di particolare tenuità nei casi in cui l’autore abbia agito “per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali”) già ora molti commentatori si orientano comunque a favore della confisca sottolineando che l’art. 131 bis c.p. implica comunque accertamento del reato e della responsabilità dell’autore, sicché non vi sarebbe motivo per riconoscergli il diritto alla restituzione.
Suggerimenti interpretativi di segno contrario ed a sfavore di orientamenti che tendano a dilatare troppo i casi di ablazione definitiva e sembrerebbero sanzionare il “tipo di autore”, sembra si possano in qualche misura trarre dalla decisione della Corte di Cassazione inerente la prole nata da animali sottoposti a sequestro secondo cui il sequestro non si estende (Sez. 3, Sentenza n. 20934 del 21/03/2017), pur sancendo la stessa decisione che “nei delitti contro il sentimento per gli animali, ai fini della confisca prevista dall’art. 544 sexies c.p., l’animale rileva non come corpo del reato o cosa ad esso pertinente, né come bene patrimoniale produttivo di frutti, ma esclusivamente come essere vivente dotato, in quanto tale, di una propria sensibilità psico – fisica”.
Personalmente vorrei da ultimo ricordare come si possa almeno in alcuni casi giungere a soluzioni pratiche soddisfacenti utili a contemperare i diritti in gioco, attraverso uno sforzo interpretativo e senza discostarsi dalle norme vigenti, come accaduto in un caso in cui era stata negata la restituzione all’avente diritto — proprietaria dell’animale ed estranea alla condotta di reato che però avveniva nella sua casa in danno di un cucciolo di cane durante le ore del giorno in cui ella era assente per lavoro — sottolineandosi l’inadeguatezza dell’ambiente a prevenire la reiterazione di situazioni di sofferenza dell’animale, posto che l’ambiente — appunto — corrispondeva nella sostanza ad una condizione di convivenza con l’autore della condotta di reato che aveva provocato il sequestro. Alla interruzione della convivenza (scelta a questo punto dall’interessata) aveva subito potuto far seguito la restituzione del cane maltrattato.
Questa vicenda ci suggerisce dunque di ricordare che, in ogni caso, i soggetti privati – oltre che responsabili civilisticamente dei danni provocati dalle condotte degli animali affidati allo loro custodia e nel contempo responsabili sotto il profilo penale della salute e del benessere degli animali stessi — possono non solo attori e “parti offese” nel procedimento penale (come può accadere, ad esempio, ai proprietari di cani e gatti affidati a strutture che forniscono servizi, a carico dei cui gestori emergesse notizia di condotte di reato), ma soprattutto possono trovarsi in condizione di rappresentare legittimamente e pienamente anche gli interessi propri dell’animale pure nel caso in cui essi stessi siano direttamente attinti dal provvedimento cautelare.