AVV. MONICA GAZZOLA
Grazie alla Dottoressa Paccagnella per questa illustrazione di apertura che ha toccato tutti i punti fondamentali del tema del nostro convegno. Nel suo intervento ha fatto riferimento a una questione fondamentale che può presentarsi al Giudice per le Indagini Preliminari, ossia il caso del sequestro preventivo dell’animale maltrattato. In merito a questo punto, vorrei ricordare il passaggio di una richiesta di convalida di sequestro preventivo del dott. Giorgio Gava, Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica del nostro Tribunale di Venezia. Lo cito perché egli avrebbe voluto partecipare a questo convegno e ci ha aiutato e supportato nell’organizzazione ma non gli è stato possibile presenziare. Il Dottor Gava afferma nella sua richiesta: “Il punto è che gli animali non sono più nel nostro ordinamento cose. Proprio perché gli animali non sono cose il legislatore non ne ha concepito, anche a seguito della loro confisca, la vendita, ma ha concepito per essi un istituto, l’affidamento, che è lo stesso istituto previsto per i minori. Gli animali sono stati cioè assimilati dal legislatore alle persone piuttosto che alle cose. Il legislatore ha inteso concepirli quali vittime di reato che non possono essere consegnate al miglior offerente, e questo a loro tutela”.
L’ho voluto ricordare perché credo che a volte l’attività di chi è sul campo, Avvocati, Magistrati, vada oltre il freddo precipitato normativo, e questo ricorda un po’ — faccio una similitudine un po’ azzardata — il discorso della violenza sessuale: voi ricordate che fino al 1996 la violenza sessuale era ricompresa tra i reati contro la morale pubblica, solo successivamente finalmente è stata ricompresa nei reati contro la persona. Tuttavia, ben prima della modifica legislativa del ‘96, era pacifico nella giurisprudenza e nella dottrina che il bene tutelato dalla norma fosse l’integrità psicofisica della persona. Perché ho fatto questo esempio? Per dire che anche se ancora oggi il bene giuridico tutelato formalmente dal nostro ordinamento penale è il sentimento umano nei confronti degli animali, vi è la possibilità e quasi direi il dovere di considerare in realtà come bene primario tutelato il diritto all’incolumità psicofisica dell’animale. Faccio questo azzardo perché gran parte del pensiero femminista si è interessato anche al Movimento di Liberazione Animale per il medesimo principio di rivendicazione di una dignità e di una titolarità di diritti.
Dopo questo bellissimo intervento della Dottoressa Paccagnella, passo con piacere la parola alla collega Maria Cristina Giussani del Foro di Milano, che è attivista e esponente di Animal Law, associazione che raccoglie giuristi italiani impegnati nella tutela degli animali, e ci parlerà nel merito della disciplina prevista nel nostro codice.
Anticipo che l’Avv. Giussani, tra l’altro, toccherà un punto fondamentale, ossia l’applicazione della scriminante dell’art. 19 ter disp.att. c.p.p. di cui ho accennato prima nell’introduzione: la tutela degli animali appare ristretta agli animali antropizzati, ossia gli animali che sono più vicini all’essere umano per consuetudine, tradizione, gratificazione umana o vicinanza genetica, quindi cani, gatti, grandi scimmie. Mentre c’è tutta quella massa indistinta di animali di cui ci cibiamo — cioè molti si cibano — o che vengono utilizzati per pellicce e pellami, che sono esclusi dalla tutela del Titolo IX bis del codice penale. Ricordo che in Italia vi è il divieto, sempre introdotto con la legge del 2004, della produzione e del commercio di pellicce derivanti da cani e gatti, mentre tutti gli altri animali possono essere allevati e scuoiati per le pellicce.
È con piacere che lascio la parola alla collega Maria Cristina Giussani.
AVV. MARIA CRISTINA GIUSSANI – La tutela degli animali nel nostro sistema penale. Luci e ombre
Grazie mille, grazie Monica per l’invito, grazie a tutti voi che siete qui, Camera Penale, Ordine degli Avvocati e Università Cà Foscari di Venezia.
Inizio il mio intervento riprendendo le parole di Monica, sottolineando che oggi intendo occuparmi, in realtà, non degli animali da compagnia, quindi quelli tutelati dagli artt. 544 bis, ter e seguenti, introdotti nel Codice Penale dalla Legge 189/2004, ma di tutti gli altri che, purtroppo, sono completamente esclusi da questa normativa.
Mi riferisco alle attività normate dalla c.d. legislazione speciale, e quindi tutte le attività lecite, che sono purtroppo ancora lecite nella nostra società: la caccia, la pesca, l’allevamento, la macellazione, l’attività circense e la vivisezione.
Tra queste, concentrerò in particolare la mia attenzione in materia di macello e trasporto degli animali destinati al macello e alla sperimentazione scientifica su modello animale, perchè ritengo siano le parti più delicate in termini di compromissione dei diritti degli animali.
Non perchè non ci siano norme comunitarie o statali a regolare minuziosamente la materia, ma perchè è più facile che in queste specifiche materie gli interessi contrapposti (la produzione, il consumo, il reddito, financo l’interesse personale e l’ambizione) finiscano con il prevalere sui diritti degli animali.
Per questi animali c.d. “da produzione” si prevedono delle “regole minime” e quando dico minime intendo veramente minime; infatti quando ci si riferisce ad un ipotetico “benessere animale” in realtà non si intende mai un benessere degli o per gli animali, piuttosto il riferimento è alla carne migliore come prodotto per i consumatori.
Non vi è cenno all’animale inteso come essere senziente.
Dopo il 2004 cominciano le prime pronunce giurisprudenziali in materia di maltrattamento animale, essendo aumentata la sensibilità dei giudici nei confronti di questa materia in genere, ma soprattutto a tutela degli animali che non siano da affezione. Questo sia per una maggiore coscienza e sensibilità sociale, sia per effetto anche della legge 189/2004.
Per quanto riguarda la coscienza sociale, negli ultimi anni abbiamo assistito a una “dimostrazione visiva” abbastanza efficace di quello che succede negli allevamenti, che siano allevamenti di visoni, di mucche, di polli, ecco abbiamo assistito grazie alle associazioni, a molte associazioni animaliste e coordinamenti, che rendono un servizio alla comunità, perché fanno delle investigazioni e poi mostrano quello che succede all’interno di questi luoghi e i numerosissimi abusi che avvengono.
In tema di pronunce giurisprudenziali, vorrei segnalarvi innanzitutto una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, non è recentissima ma è rivoluzionaria, la 16497 del 2013, che proprio in tema di norme minime per la tutela di questi animali sancisce il principio che il delitto di maltrattamento possa essere applicato anche agli animali da reddito. Ve la leggo “la necessità di scriminare attività che, già riconosciute come lecite dalle leggi speciali”, quindi quello di cui stavamo parlando prima, “possano essere obiettivamente lesive della vita e della salute degli animali” e qui arriva il punto importante “incontra evidentemente il proprio limite applicativo nella funzionalità della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni poste a base della normativa speciale”.
Quindi, quando in questi settori legati alla produzione si commettono degli abusi nei confronti degli animali, e ce ne sono moltissimi, anche e soprattutto sugli animali che vanno al macello, proprio perché per una visione aberrante, abietta e tutta antropocentrica, sugli animali che vengono portati al macello si pensa di poter fare qualsiasi cosa, a questo punto viceversa le norme minime della legislazione di settore si contraggono e si riespande la normativa prevista dalla Legge 189/2004 in tema di maltrattamento animale.
Sempre in tema di trasporto di animali destinati al macello, vorrei citare la sentenza Cass. Pen. , sez. III, 24 giugno 2015 n. 38789.
Nel famoso caso in questione, assurto alle cronache, un bovino destinato alla macellazione, impossibilitato a deambulare per le precarie condizioni di salute, veniva sottoposto ad inutili sevizie e vessazioni da parte dei lavoranti nel trasporto al macello.
In particolare, si legge nella sentenza, “al fine di trascinare l’animale, non più in grado di camminare, questi viene spinta lungo il pavimento con l’ausilio della pala di un trattore, caricata sulla pala e sollevata, trascinata, schiacciata tra il camion e la rampa, picchiata, calpestata sulle mammelle, pungolata con un bastone elettrico e fatta rotolare nel camion chiudendo la rampa del camion mentre lei vi giaceva sopra”.
Il coraggioso Tribunale di Cuneo aveva condannato queste persone nel 2010, e la sentenza era stata poi confermata dalla Corte d’Appello di Torino nel 2013, infine è intervenuta la pronuncia della Suprema Corte a confermare la condanna per il delitto di maltrattamento animale nei confronti dei sei imputati.
È una sentenza importante perchè evidenzia come la tutela penale non sia e soprattutto non debba essere limitata agli animali da affezione, ma si estenda a quelli destinati al macello.
L’orientamento della giurisprudenza nell’applicare il reato p. e p. dall’articolo 544ter all’attività di macellazione o altre attività in cui sono coinvolti animali, pur in presenza di disposizioni speciali, è ribadita nella sentenza del Tribunale di Brescia 13 Febbraio 2017 n. 233 nei confronti dei proprietari, dei lavoranti e dei veterinari del macello Italcarni di Ghedi ( Bs).
Si affermano in questa sentenza, a mio modo di vedere, due principi molto importanti: il primo, che è un reato maltrattare gli animali nei macelli ( le violazioni delle cure sul benessere animale nell’allevamento in questione erano state sistematiche e consistevano in inequivocabili maltrattamenti dovuti al trascinamento su pavimenti per mezzo di catene, corde e trazioni con mezzi meccanici sproporzionati nella forza applicata), il secondo, importantissimo a mio modo di vedere di vedere, è che si riconosce al veterinario della struttura una posizione di garanzia “A fronte del quale lo stesso ha l’obbligo di intervenire in presenza di condotte da parte dei dipendenti che gestiscano gli animali in modo non corretto”.
La figura del veterinario è infatti fondamentale: molto spesso nei casi che ho avuto occasione di affrontare o come attivista o nel corso della mia professione, come parte civile o come difensore di attivisti, la posizione del veterinario è sempre stato IL nodo cruciale soprattutto, dispiace affermarlo, per le frequenti e vergognose omissioni dei veterinari sia pubblici sia interni alla struttura produttiva.
Il macello di Ghedi venne chiuso dalla Forestale, gli animali vennero posti sotto sequestro, vi furono patteggiamenti da parte dell’amministratore del macello e di tre suoi dipendenti.
I veterinari furono condannati a due anni e ad un anno e sei mesi.
Purtroppo mi è giunta notizia che, nonostante lo scempio, questo macello in provincia di Brescia è stato riaperto.
Questi sono esempi delle innumerevoli situazioni di maltrattamento animale che si scatenano in questi luoghi, sono due esempi insieme ad altri che sono eclatanti, perché assurti alle cronache, perché ci sono state pronunce giurisprudenziali particolarmente importanti che magari hanno ribaltato degli orientamenti precedenti che andavano in tutt’altro senso.
Però, diciamo così, grazie proprio a queste sentenze, grazie a queste denunce, si è scatenato un dibattito mediatico e la proposta al Parlamento da parte di associazioni animaliste ( tra cui Animal Law) di introdurre anche in Italia una legge che preveda l’obbligo di installare impianti di videosorveglianza in tutti i macelli ( cosi come già previsto in altri Stati, tra cui Israele nel 2016, lo Stato indiano di Uttar Pradesh, nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, se ne parla in Francia e anche in Spagna).
Ovviamente insieme a questi casi così eclatanti non dobbiamo dimenticarci che ci sono dei casi più piccoli, magari, ma comunque di maltrattamento animale, che non conosceremo mai. È il caso, ad esempio, di una denuncia da me presentata per l’associazione Vita da Cani, investita anche dell’affidamento degli animali che vengono posti sotto sequestro, in custodia e quant’altro, in situazioni, dicevo, di documentata, tramite fotografie e filmati, incuria, malnutrizione, abbandono di animali all’interno degli allevamenti.
Abbiamo sporto una denuncia nei confronti di questo allevamento nel mantovano: denuncia che ha riposato negli uffici della Procura per circa 4 anni, per poi essere riesumata un paio di mesi fa con una richiesta di archiviazione. Ora abbiamo fatto opposizione alla richiesta di archiviazione, ma è molto interessante leggere il provvedimento che nelle gravi condotte degli allevatori vede integrate semplicemente delle ipotesi contravvenzionali e nemmeno legate al maltrattamento animale ma ad altre irregolarità dell’azienda stessa. Non solo, il veterinario ASL di zona scrive nella sua relazione che era presente un solo capo in evidente condizione di malnutrizione a terra, e quindi a quel punto se n’è ordinato l’immediato abbattimento, e pertanto non si può parlare di maltrattamento!
Ecco, io dico, anche qui deve cambiare assolutamente, a mio modesto parere, la visione dei veterinari che operano per le ASL e vanno quotidianamente o periodicamente negli allevamenti, perché anche in questo caso emerge la visione assolutamente antropocentrica di queste persone che in realtà dovrebbero tutelare prima di tutto ed unicamente il benessere dell’animale e invece tutelano esclusivamente il profitto dell’azienda.
Ci sono poi dei volontari che hanno sporto diverse denunce, erano più di trenta, nei confronti di un c.d. rifugio situato ad Appiano Gentile. Le denunce hanno portato a due decreti penali di condanna, uno dei quali è stato opposto. Anche in questo caso, il Pubblico Ministero ha ravvisato esclusivamente l’ipotesi contravvenzionale! Nella costituzione di parte civile abbiamo voluto sottolineare che non si possa ritenere configurata solo l’ipotesi contravvenzionale per circa 320 individui di tutte le specie, dalle capre, alle mucche, ai cinghiali, ai conigli, morti per malnutrizione, per mancanza di luoghi dove stare, per incuria, sotto il freddo e quant’altro, bensì piuttosto un maltrattamento degli animali, essendo configurati sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo del reato nella forma del dolo eventuale.
Gli animali, 19 suini, sono stati affidati a Vitadacani in custodia giudiziaria e la relazione che ha portato al sequestro parla “di animali che si presentano in evidente stato di denutrizione, disidratazione e sofferenza, senza possibilità di ricovero. Non sono visibili contenitori per il cibo nè tracce di cibo, da cui si evince che i soggetti vengono alimentati saltuariamente”.
Il processo è appena iniziato.
Il maltrattamento di questi animali, in ogni caso, supera i confini nazionali e si hanno documentate situazioni di maltrattamento anche, ad esempio in Spagna. Dico in Spagna perché io lavoro in diverse zone della Spagna e anche qui sono state documentate da tante associazioni animaliste, Igualdad Animal o Equalia, dei maltrattamenti che avvengono all’interno degli allevamenti o dei macelli, in una vasta area vicino a Madrid, la zona nord ovest, a Segovia. La situazione spagnola è questa, almeno in parte: in Spagna sono aumentati sicuramente esponenzialmente i casi di denunce di maltrattamento nei confronti degli animali, e i casi di condanna dal 2015/ 2016 ad oggi sono quasi raddoppiati.
Dalla Spagna mi sembra interessante segnalarvi quattro casi di condanna per maltrattamento animale che hanno portato all’ingresso addirittura in carcere degli autori del crimine. Il primo caso è quello del cavallo Sorky, nell’ ottobre 2015, Tribunale di Palma di Maiorca, fu caso pioniere in quanto per la prima volta una persona entrò in carcere esclusivamente per il delitto di maltrato animal (senza avere altre pene pendenti da scontare), colpevole nel 2012 di avere ucciso a bastonate il proprio cavallo da corsa, a seguito di un cattivo risultato in una gara di trotto.
Il proprietario fu condannato ad otto mesi e il giudice affermò che in un caso di inusitata violenza come questo, la sospensione della pena avrebbe potuto trasformarsi in un messaggio “antipedagogico” .
Dopo due mesi di carcere, a seguito di ricorso, la Audiencia Provincial concesse al condannato il beneficio della sospensione condizionale della pena alla condizione di seguire un programma di protezione degli animali.
Un secondo caso è quello del cane Mix, in cui la medesima Magistrata del Tribunale di Palma di Maiorca condannò per maltrattamento animale un uomo colpevole di avere lasciato morire il suo cane di fame e di sete. Anche qui l’uomo entrò in carcere. Secondo le motivazioni del Giudice infatti la morte di fame è una delle più crudeli, sia per le persone che per gli animali. Al contrario, la Sezione Seconda de la Audiencia Provincial de Baleares confermò la sentenza di primo grado, 12 mesi di condanna, sottolineando che non c’era stata la benchè minima revisione della condotta da parte del condannato.
Il terzo riguarda un allevatore delle Asturie, condannato nel 2016 dal Tribunale di Oviedo a nove mesi di carcere, per avere abbandonato un vitello senza avere accesso all’acqua e al cibo, sotto il sole cocente per vari giorni, con l’aggravante che il medesimo era invalido delle zampe posteriori.
Poi veniamo al caso più recente, siamo a novembre 2017, e particolarmente grave di condanna della presidentessa dell’associazione Parque Animal de Torremolinos, condannata dal Tribunale Penale di Malaga a tre anni e nove mesi per il sacrificio in massa di gatti e cani randagi ( si stima almeno 2183) ospitati nel proprio rifugio in un periodo che va dal 2008 al 2010, sacrificio al fine lucrativo di liberare spazio nella struttura per accogliere nuovi randagi, per i quali percepiva un rimborso dal Ayuntamento.
Il tutto avveniva ovviamente senza alcun controllo veterinario e i prodotti eutanasici erano somministrati direttamente dalla condannata e in dosi minori di quelle indicate per evitare la sofferenza degli animali.
Anche in questo caso, la Audiencia Provincial confermò la sentenza di primo grado, non venne concessa la sospensione condizionale della pena, venne imposta altresì una multa di 24.200 euro, oltre l’inabilitazione per tre anni.
Diciamo che la Spagna, pur con le sue gravi lacune dal punto di vista del mantenimento delle c.d. “tradizioni” (leggi: corrida) in alcune delle sue Comunità autonome, ha fatto comunque un passo in avanti grazie anche alla sensibilità di qualche giudice più illuminato di altri, soprattutto in punto di effettività della pena.
Ora vorrei soffermarmi su di un settore della legislazione speciale in cui le pronunce delle Corti per maltrattamento animale sono davvero pochissime, una rarità: la vivisezione.
La sentenza storica, è il caso di dirlo, è quella di Green Hill, allevamento di cani beagle di Montichiari, dove tremila circa cani beagle allevati al fine di essere sottoposti a sperimentazione erano tenuti in condizioni contrarie alla loro natura, maltrattati e uccisi se non rispondevano a determinati requisiti praticando l’eutanasia in modo disinvolto. Furono condannati, mai abbastanza vorrei ribadire, il cogestore della struttura, il veterinario e il direttore dell’allevamento.
La tenacia di un Pubblico Ministero nel volere approfondire quello che quotidianamente succedeva tra i muri di questa multinazionale e insieme il grande clamore mediatico che ne è derivato, scosse le coscienze dei più, anche dei comuni cittadini indignati di quello che succedeva all’interno dell’allevamento poi sottoposto a sequestro, affidati gli animali alle associazioni animaliste e infine adottati da privati cittadini.
Una delle poche storie a lieto fine per quanto riguarda gli animali destinati alla sperimentazione.
È recente la sentenza della Corte d’Appello di Brescia (3 Luglio 2019) che ribalta la sentenza di primo grado sui maltrattamenti di animali avvenuti sempre all’interno dell’allevamento Green Hill di Montichiari. Due veterinari dell’Ats di Brescia erano stati assolti in primo grado così come tre dipendenti della struttura.
Un veterinario è stato condannato a tre anni per concorso in maltrattamenti di animali, uccisione, omessa denuncia e falso in atto pubblico. Condanna a un anno e 4 mesi invece per tre ex dipendenti di Green Hill per falsa testimonianza perché, nel processo collegato (Green Hill 1) non avrebbero raccontato la reale situazione che c’era all’interno dell’allevamento.
Sentenza molto importante perchè si afferma che era impossibile che durante i controlli dei veterinari pubblici, non fossero emerse evidenze dei maltrattamenti e delle uccisioni ingiustificate verificatesi nella struttura, per le quali i vertici e il veterinario di Green Hill sono stati condannati in tutti e tre i gradi di giudizio.
Questa sentenza è la dimostrazione di come il maltrattamento, inteso come deprivazione dell’etologia animale, sia penalmente rilevante anche in settori considerati intoccabili come quello della vivisezione. Infatti sono descritte nel dettaglio le eto-anomalie causate dalla scellerata gestione dell’azienda che – ricordiamo – “aveva un solo medico veterinario per circa 3000 cani e dalle h18 alle h7 del mattino i beagle erano letteralmente abbandonati a loro stessi, anche se malati. Plurime le anomalie riscontrate nell’allevamento: le temperature riscontrate erano ‘ben oltre quelle indicate nel Decreto legislativo 116/92’, l’areazione inadeguata, la struttura sovraffollata, mancavano all’interno dei box aree di isolamento per garantire il riposo dei cani, la lettiera per dimensioni e qualità (polverosa) costituiva un ‘serio problema’ perché ingerita da cuccioli e causa ‘molto diffusa’ di morte specie tra i cuccioli”. Esplicitamente il Giudice afferma che ‘reputa sussistente il nesso di causalità diretta tra il considerevole numero di decessi e l’attività di sorveglianza oltremodo discontinua e con assistenza inadeguata’.
Chissà se ci sarà giustizia per i 750 topi, che comunque sono sempre esseri viventi, se sposiamo un’ottica antispecista il topo ha la stessa dignità e diritto alla vita di una scimmia, di un cane, di un uomo, ospitati nello stabulario del centro di ricerche biomediche “Mario Negri Sud” di S. Maria Imbaro (Chieti), chiuso nel 2014 per crisi economica, compresa l’impossibilità di mantenere questi animali vivi, e infatti, vennero uccisi per asfissia con il gas alla stregua di oggetti, pur prevedendo il Decreto Legislativo 26-14 (sulla sperimentazione) “il reinserimento degli animali in un habitat adeguato”. Solo 49 superstiti furono sequestrati per ordine della Procura della Repubblica di Lanciano e affidati ad una associazione animalista.
Speriamo che la normativa sul maltrattamento animale, sull’uccisione senza necessità, sull’uccisione con crudeltà o per motivi abietti e futili venga applicata anche in questo caso e in tutti gli altri in cui non si tratti di cani e di gatti.
Perchè è evidente che anche nelle normative che riguardano gli animali, c’è una disparità di trattamento anche se, negli ultimi tempi, è la giurisprudenza che pare suggerire che la posizione degli “altri animali”, quelli non di compagnia, vada rivisitata.
Mi piace ricordare due sentenze, la sentenza (Cass. Penale, sez. III, 17/4/2019, n. 29510) che ha ravvisato un maltrattamento nell’avere provocato lesioni, anche se non siano croniche, alle penne di alcuni volatili. La Corte ha infatti ritenuto irrilevante l’obiezione difensiva centrata sulla ricrescita delle piume (il danno sarebbe pertanto solo provvisorio). Ciò che conta, secondo i Giudici, è il fatto che gli uccelli hanno subito lesioni innaturali ad opera dell’uomo, lesioni che ne hanno limitato la libertà di movimento.
E, in tema di utilizzo di animali vivi come esca per la pesca sportiva, la Cass. Penale, sez. III, 14/12/2018, n. 11, ha ritenuto non potersi intendere tale condotta scriminata ex art. 19 disp. coord. c.p. L’imputato era stato condannato dalla Corte di Appello di Firenze per il reato di cui all’art. 544 ter c.p. per aver gettato nel fiume alcuni piccioni vivi dopo averli appesi per una zampa all’amo.
La Cassazione, che ha confermato la condanna in appello, affermando “le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano utilizzati, hanno determinato in essi rilevanti sofferenze, senza che ricorresse il requisito della necessità” ha dimostrato di voler considerare, anzitutto, l’offesa agli animali e alle loro caratteristiche biologiche e non tanto il sentimento di umana compassione verso gli stessi.
Conclusivamente c’è da augurarsi che si persegua questa linea evolutiva, affinchè la chiave di lettura in tema di sofferenza degli animali non sia più antropocentrica bensì biocentrica, egualitaria ed etologica così da rendere l’animale – creatura complessa e dotata di sentimenti, coscienza e dignità in quanto essere vivente – il vero soggetto passivo dei reati di maltrattamenti.