AVV. MONICA GAZZOLA

Grazie al collega Pezone per questa sua relazione che è anche una testimonianza di quello che è lo stato attuale della giurisprudenza nazionale e una prospettazione di quello che si può fare di più a livello nazionale.

Sono particolarmente felice adesso di dare la parola alla Prof.ssa Sara De Vido, associata di Diritto Internazionale a Ca’ Foscari e Vicedirettrice del Centro Studi per i Diritti dell’Uomo. Con Sara De Vido abbiamo lavorato assieme in questa materia, per questo sono particolarmente felice di darle la parola: il Prof. Zagato aveva accennato a quel convegno che abbiamo fatto quattro anni fa su tortura e animali, aveva partecipato anche la Prof.ssa De Vido e anche lei ha collaborato con un suo scritto alla pubblicazione del volume “Per gli animali è sempre Treblinka”. La Prof.ssa Sara De Vido, in virtù del suo ambito di studi di ricerca e di insegnamento, ci darà un affresco dello stato attuale della legislazione internazionale dell’Unione Europea.

PROF.SSA SARA DE VIDO – La tutela degli animali nel diritto internazionale e nell’Unione Europea 

Grazie. Ringrazio moltissimo l’Avvocato Monica Gazzola per avermi invitato a questo tavolo, ringrazio voi tutti, i Relatori e le Relatrici che mi hanno preceduto, perché mi hanno dato degli spunti molto interessanti.

Sono una giurista internazionalista e lavoro nel campo del Diritto internazionale e del Diritto dell’Unione Europea, quindi il mio approccio, che è meno pratico, più accademico, vi porterà a riflettere sull’esigenza di un cambio di paradigma negli studi sulla tutela degli animali non umani a mio avviso necessario. Parlerò infatti di animal welfare, di benessere animale, ma non nel senso tradizionale del termine (che considera “benessere” il trattamento di animali non umani destinati al macello), bensì alla luce di un approccio nuovo rivolto al riconoscimento dei diritti degli animali non-umani, collocando il mio discorso nel contesto dei diritti della natura.

Aggiungo soltanto alla ricostruzione che ha fatto l’Avvocata Gazzola prima con riferimento agli studiosi che hanno parlato di diritti di animali non umani invocando un internazionalista, Jeremy Bentham, che nel 1789 in una nota del suo Introduction to the Principles of Morals and Legislation scrive:

Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali – il resto degli esseri animali, notare anche la raffinatezza della scelta linguistica, – potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere abbandonato senza riparazione ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro sono motivi egualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso fato. Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà di ragionare o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? La domanda non è Possono ragionare?, né Possono parlare?, ma: Possono soffrire?

Quindi Bentham usa un linguaggio dei diritti, benché la sua concezione del diritto fosse in realtà ben più complessa. Il dato rilevante è tuttavia il principio di uguaglianza sul piano interspecistico.

Quasi un secolo dopo, nel 1892, Henry Salt nei suoi Diritti animali considerati in relazione al progresso sociale segna il passaggio dalla teoria dei doveri a quella dei diritti, benché considerasse gli animali inferiori. Egli scrive infatti: Have the lower animals rights? Undoubtely, if men have e ribadiva quindi che la non sofferenza degli animali diventava un loro diritto e non un dovere degli esseri umani nei loro confronti. 

In tema di soggettività giuridica degli animali non umani rileva anche il contributo di Cesare Goretti, autore nel 1928 di un saggio dal titolo L’animale quale soggetto di diritto. Egli rifiuta una concezione antropomorfica della vita animale. L’animale è visto come un vero e proprio soggetto titolare di diritti pubblici soggettivi, non originari, così come per gli umani, riflesso di un ordinamento giuridico al quale in qualche modo partecipano.

È già stato citato Peter Singer nel suo Animal liberation, 1975, e Monica, se ricordi, avevamo intervistato questo autore via Skype in un convegno a Treviso – molto interessante e anche innovativo nella modalità, virtuale. Tom Regan, già nominato, nel 1983 pubblica The case for animal rights:

Non esiste una ragione singola per attribuire la coscienza o una vita mentale a certi animali. Esiste un insieme di ragioni che, se considerate complessivamente, costituiscono quello che si potrebbe chiamare argomento cumulativo a sostegno della coscienza animale.

Regan individua le caratteristiche della soggettività in elementi come la percezione, la memoria, il desiderio, la credenza, l’autocoscienza, l’intenzione, il senso futuro, la capacità di provare emozioni ed essere dotati di una forma di sensibilità e ammette nel club della soggettività umani e non umani. Diritti-doveri: obbligo per gli umani di non permettere che i loro diritti vengano violati per cause frivole o triviali.

È già stata altresì citata la Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali del 1978, uno strumento di soft law, interessante in quanto era stato proposto all’Unesco da parte dei rappresentanti di alcune associazioni animaliste. Tale dichiarazione era frutto di un’iniziativa privata e si avvertiva in essa un tentativo di cambiamento dell’approccio di cui discuteremo a breve. 

Molto recentemente, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto a un ambiente salubre, David Boyd, ha scritto un libro ricco di spunti, The rights of the nature, quindi proprio i diritti della natura, in cui vi sono due capitoli dedicati agli animali non umani di particolare rilievo. Lui stesso afferma: “Dagli elefanti, ai cetacei, alle formiche, ai pesci, gli animali chiaramente sentono, pensano e ragionano, sono esseri senzienti, non macchine. Non potremo mai capire”, sostiene Boyd, “la complessità delle altre specie, possiamo studiarne il DNA, fare esperimenti complessi, ma conoscerli completamente è impossibile”, e rileva, e questo si ricollega anche alle relazioni che mi hanno preceduto, l’evoluzione della legislazione e della giurisprudenza, soprattutto, va detto, a livello nazionale più che internazionale. Sulla giurisprudenza recente vi parlerò dell’approccio piuttosto tradizionale adottato dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del caso Caccia alle balene nell’Antartico (Australia v. Japan).

Il punto su cui volevo riflettere con il pubblico oggi parte dal concetto di benessere animale come concetto scientifico per andare poi ad esplorare un terreno poco conosciuto, quello dei diritti degli animali non-umani.

Il benessere animale disciplina la vita e la morte di animali non umani che sono tenuti, commerciati e uccisi dagli esseri umani, ed è basato sull’assunzione che gli umani hanno moralmente titolo a comportarsi in un certo modo. Il benessere animale è stato identificato in tre dimensioni: la salute dell’animale, il suo stato effettivo, il suo vivere naturale, e uno scienziato, Gardner, disse: “Gli animali non devono soffrire ma non hanno diritti”.  Argomenterò che questo paradigma in realtà è insufficiente.

La FAO ha riconosciuto che vi siano prove per ritenere esista un crescente consenso sull’importanza degli standard di benessere animale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha definito il benessere animale come una questione globalmente riconosciuta.

Nel diritto internazionale, vi sono strumenti per la protezione delle specie a rischio di estinzione, per la protezione degli habitat, per la diversità biologica. Si dice poco sul benessere degli animali, figuriamoci sui loro diritti. Generalmente si trovano diverse norme a seconda del fatto, e anche questo è stato sottolineato molto bene prima, che gli animali siano animali da fattoria, selvatici o animali usati per gli esperimenti, e le norme a disposizione sul piano internazionale sono disperse e frammentarie. Così, è già stata citata la Convenzione sul Commercio Internazionale di specie animali e vegetali in via di estinzione, la CITES, 1973, ampiamente ratificata dagli Stati, che certamente nel preambolo riconosce il valore della flora e della fauna come insostituibili nei sistemi naturali e il crescente valore sotto vari punti di vista, ma che ciononostante, – ed ecco l’approccio antropocentrico emergere in tutta la sua forza – riconosce che gli uomini e gli Stati sono coloro che meglio possono proteggere la fauna e la flora.

A questa si aggiunge la Convenzione sulla Conservazione delle Specie Migratorie di Animali Selvatici del 1979: si riconosce che gli Stati devono essere i protettori di queste specie di animali selvatici e proprio in questi giorni, proprio ora in realtà, è in corso la conferenza degli Stati parte di questa Convenzione in India, dove si rifletterà anche sull’aggiornamento degli allegati alla medesima convenzione. 

E ancora, del 1982 è la Convenzione sulla Conservazione della Vita Selvatica e dell’Ambiente Naturale in Europa. Va poi citato il protocollo sulla protezione ambientale al trattato sull’Antartico del 1991 che richiede che la cattura degli animali sia compiuta – cito – “in modo che comporti la minore sofferenza possibile”. 

Si arriva poi alla World Charter for Nature del 1982 e nel 1992 la Conferenza di Rio che sviluppa il diritto ambientale sul piano internazionale. 

Sul benessere animale, più che convenzioni internazionali si trovano atti di organizzazioni o conferenze di Stati parte. Così, per esempio, lo standing committee della Convenzione di Berna che citavo prima sulla conservazione della vita selvatica ha raccomandato che i metodi per sradicare le specie aliene debbano essere selettivi, etici e senza crudeltà per quanto ciò possibile, compatibilmente con l’obiettivo di eliminare in modo permanente le specie invasive. La Commissione baleniera, istituita dalla Convenzione del 1946 che disciplina (non vieta!) la caccia alle balene, pone la questione della moratoria della caccia alle balene a scopi commerciali. 

I Paesi europei hanno adottato delle norme che regolano il trattamento degli animali, il trasporto, l’uccisione, la tutela degli animali da compagnia. Nel quadro del Consiglio d’Europa è in vigore una convenzione per la protezione degli animali durante il trasporto internazionale, del 1968, e una Convenzione per la protezione degli animali per scopi di allevamento del 1976. A livello UE, la normativa sul benessere animale è ampia: va dalle norme minime per la protezione dei polli allevati per la produzione di carne al divieto delle orribili casse di gestazione, al divieto di antibiotici tranne per trattare gli animali da malattie. Mancano indubbiamente degli strumenti uniformi.

Negli anni Novanta a San Francisco, negli Stati Uniti, è stata proibita la vendita di cani e la loro uccisione pubblica a China Town. L’Unione Europea ha bandito completamente nel 2013 l’animal testing per i cosmetici. E protegge le foche. È stato infatti adottato un regolamento (poi modificato alla luce del ricorso di cui si dirà) sul divieto di commercio di prodotti derivanti dalla foca, che è costato moltissimo all’Unione Europea, in quanto è scattato un ricorso complesso davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio – Canada, affiancato anche dalla Norvegia, contro l’Unione Europea (iniziato nel 2009, conclusosi nel 2014).  Nel rapporto adottato dal panel dell’OMC si parla di metodi inumani di uccisione delle foche. Inoltre, l’Unione Europea ha elaborato una normativa sulla tutela della biodiversità tra le più avanzate al mondo, con l’istituzione del Network Natura 2000, che protegge le specie e i loro habitat. 

Nel Trattato di Lisbona il già citato art. 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea contiene un riferimento al benessere animale: ‘l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti.’ Va letta attentamente però la seconda parte del medesimo articolo: ‘rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda in particolare i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale.’ Questo testo è stato concordato su pressione spagnola; non a caso una legge spagnola del 2013 ha poi considerato la tauromachia quale patrimonio culturale. Va posta dunque particolare attenzione a quella che potrebbe apparire quale una sorta di missione civilizzatrice: c’è il rischio cioè che la protezione degli animali sia utilizzata per colpire minoranze etniche o religiose, quando miliardi di maiali – che come minimo, ma dico come minimo, hanno la stessa capacità di sentire il dolore degli esseri umani – vengono uccisi ogni anno per l’industria alimentare occidentale.

Boyd, lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite per l’ambiente già citato, lavora sull’ambiente, ma in realtà è molto aperto alla questione dei diritti degli animali non umani; afferma infatti un aspetto chiarissimo: “Le norme sulla crudeltà animale ancora escludono comportamenti comuni ma violenti, le prassi industriali sono considerate generalmente accettate; solo in casi estremi di violenza, crudeltà ed abbandono sono portati all’attenzione della legge. Se un’attività umana è divertente (circhi), conveniente (vedi fast food), generatrice di profitto, allora il danno agli animali è considerato giustificato e legittimo”.

Certamente è importantissimo il dibattito sul benessere animale, perché ha portato i consumatori anche nei Paesi industrializzati ad aspettarsi dal legislatore di prendere sul serio questo aspetto, benché, come è già stato detto molto bene prima dall’Avvocata, spesso per scopi antropocentrici, cioè per la qualità della carne, non tanto per la protezione degli animali non umani. Va tuttavia riconosciuto che la pressione politica in seno all’Unione Europea è abbastanza forte, sono stati banditi gli esperimenti sugli animali e anche il regime di divieto dei prodotti derivanti dalla foca deriva da questa pressione dal basso. 

Vi vorrei citare, tra conservazione, preservazione e benessere animale, il caso delle balene della Corte Internazionale di Giustizia, caso Australia contro Giappone del 2014, che riguardava la Convenzione del 1946 sulla regolamentazione della caccia alle balene. La caccia non è vietata da questa convenzione, è semplicemente regolamentata. Tuttavia, esiste una moratoria sulla caccia alle balene per scopi commerciali, elaborata grazie al lavoro della commissione baleniera; caccia che persiste entro determinati limiti per scopi di ricerca scientifica. Ebbene, nel 2010, l’Australia, dopo anni di tentativi diplomatici, avviava un procedimento davanti alla Corte dell’Aja lamentando la violazione da parte del Giappone che, come sappiamo, è uno Stato che promuove moltissimo la caccia alle balene, della Convenzione del ‘46 con riferimento all’autorizzazione e all’attuazione di un programma, Jarpa II, che non era altro che un programma per la caccia alle balene a scopo (dichiarato) di ricerca scientifica. Questo programma, secondo l’Australia, non poteva considerarsi a scopo di ricerca scientifica, perché si era scoperto che in realtà il numero di animali cacciati era talmente alto da non potersi giustificare quale ricerca scientifica. Nel corso del procedimento era intervenuta anche la Nuova Zelanda a sostegno dell’Australia ricordando che non era possibile utilizzare le norme della Convenzione a scopo di ricerca scientifica per circuire l’oggetto e lo scopo del trattato del 1946. La Corte aveva affermato che in effetti il programma di ricerca scientifica poteva ritenersi “a scopo di ricerca scientifica,” tuttavia il Giappone non aveva dimostrato la proporzionalità di questo programma e l’assenza di alternative non letali.

Nella sua posizione concorrente, il Giudice Cançado Trindade, uno dei più avanzati nel ragionamento giuridico, forse anche un po’ creativo, richiama l’evocativo preambolo della Convenzione del 1946: “Gli interessi delle Nazioni al mondo nella salvaguardia per le future generazioni delle grandi risorse naturali che sono rappresentate dalle balene”. Il Giudice ha sottolineato che vi era stato un passaggio da una situazione di unilateralismo, di azione di un singolo Stato, al multilateralismo e quindi alla cooperazione, nella conservazione delle risorse marine e dunque anche degli stock di balene. E Cançado fonda il suo ragionamento su due nozioni: l’equità intergenerazionale e il principio di precauzione, quest’ultimo invocato dall’Australia e anche dalla Nuova Zelanda. Non menzionato poi nella sentenza da parte della Corte Internazionale di Giustizia, il principio di precauzione mette in luce che l’interesse alla protezione delle balene è diventato un interesse comune di tutta la comunità internazionale.

Recentissima, invece, spostandoci al piano regionale, nell’ambito della tutela della biodiversità, è la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sui lupi in Finlandia del 10 ottobre del 2019. Questa applica il principio di precauzione per la prima volta con riguardo alla tutela degli animali non umani; il giudice del rinvio – si trattava infatti di un rinvio pregiudiziale – chiede alla Corte di giustizia dell’Unione europea se sia legittimo autorizzare l’uccisione di alcuni esemplari di specie protette per la lotta al bracconaggio. La Direttiva Habitat del 1992 prevede delle eccezioni e delle deroghe, pur riconoscendo il patrimonio naturale costituito dagli habitat e dalle specie. L’Agenzia finlandese per la caccia aveva sostenuto che la caccia di gestione fosse idonea a ridurre il bracconaggio, il che veniva contestato da un’associazione non governativa, Tapiola, e dalla Commissione Europea. Il Giudice del rinvio aveva spiegato che nessuna prova scientifica consentiva di giungere alla conclusione che la caccia legale di una specie protetta facesse diminuire il bracconaggio in una misura tale da produrre globalmente un effetto positivo sullo stato di conservazione del lupo. La Corte conferma questa argomentazione affermando che “la mera esistenza di un’attività illecita quale il bracconaggio o le difficoltà incontrate nell’effettuare il controllo su quest’ultima non possono essere sufficienti per dispensare uno Stato membro dal suo obbligo di garantire la tutela delle specie protette ai sensi di un allegato della Direttiva Habitat. Anzi – dice la Corte – lo Stato è tenuto a privilegiare il controllo rigoroso ed efficace su tale attività illecita e l’applicazione di mezzi che non comportino l’inosservanza dei divieti sanciti. Le deroghe quindi a questa direttiva che protegge le specie elencate negli allegati sono ammesse ma vanno interpretato in modo restrittivo”. Qui in una breve frase è racchiusa l’applicazione del principio di precauzione in questo contesto; dice infatti la Corte:

conformemente al principio di precauzione sancito dall’art. 192  paragrafo 2 del TFUE, se l’esame dei migliori dati scientifici disponibili lascia sussistere un’incertezza quanto al fatto che una siffatta deroga pregiudichi o meno il mantenimento o ripristino delle popolazioni di una specie minacciata di estinzione in uno stato di conservazione soddisfacente, lo Stato membro deve astenersi dall’adottarla o dall’attuarla.

Il terzo caso – meglio, situazione, visto che non citerò alcuna sentenza – concerne il bracconaggio degli elefanti. Nell’Africa Orientale, si è registrato il declino del 50% della popolazione animale dal 2007, causata da una perdita molto ampia degli elefanti in Tanzania soprattutto e poi in Sudafrica. L’analisi delle norme a tutela degli elefanti va dalla Convenzione Unesco sul patrimonio dell’umanità, che protegge le specie in via di estinzione nei loro siti; la CITES che è già stata ampiamente citata oggi con l’inclusione degli elefanti africani nell’appendice 1, tranne le popolazioni di Botswana, Namibia, Sudafrica, Zimbabwe collocati nell’appendice 2; poi la Convenzione sulla conservazione delle specie migratorie: in questi giorni in India, come dicevo, si sta discutendo l’aggiornamento degli allegati, con la proposta di inserimento degli elefanti asiatici nell’allegato 1, cioè tra le specie veramente a rischio di estinzione. Infine, naturalmente, la protezione che deriva più in generale dalla Convenzione sulla diversità biologica del 1992.

Ecco dunque la necessità di cambiare completamente paradigma. Ce lo dice un’altra studiosa, Anne Peters, in un articolo intitolato “Liberté, egalité, animalité”, che inizia ricordando un episodio del 1879 e del 1935 allo zoo di Basilea, in Svizzera, quando vennero messi in mostra degli esseri umani non europei con abiti tradizionali; gli organizzatori di allora si assicurarono che questi individui non parlassero una lingua europea, la de-umanizzazione, i primitivi erano relegati a livello di animali non umani. Allora qual è il confine tra homo e animale? Alla luce di tutte le scienze, incluse quelle umane, è stato contingente, variabile, molto labile. Le conoscenze scientifiche oggi ci permettono di dire che ad esempio i pipistrelli utilizzano l’eco-localizzazione, che i delfini, le balene, i primati, gli elefanti sono estremamente intelligenti. Dave Peterson ha scritto che “i delfini hanno una memoria eccezionale e alti livelli di socialità e autoconsapevolezza, eccellenti nel mimare il comportamento di altri e rispondere a delle presentazioni simboliche, formano sistemi sociali complessi”. Ecco allora che gli studi scientifici sulle abilità degli altri animali e la dimostrazione del continuum tra i nostri geni e i loro creano l’obbligo di giustificare qualsivoglia costruzione, sia essa di unicità umana ovvero di animalità umana, altrimenti se non vi sono giustificazioni per attribuire solo agli animali umani certi diritti, siano essi morali o di matrice giuridica, allora la distinzione si rivela mero specismo.

Il dislivello quindi è evidente nel fatto che la violenza permessa o condonata dalla legge è costitutiva di due dei principali usi che sono fatti nella società attuale: la produzione di cibo e l’animal testing. L’ultimo solleva enormi critiche anche se in termini di numeri è irrilevante rispetto all’industria alimentare.

Per giungere a una riflessione seria sui diritti degli animali non umani dovremmo prima svolgere un parallelo con altri discorsi giuridici, quali il razzismo, lo specismo e il sessismo. Bentham nel 1789 lo aveva detto facendo un parallelo con la missione colonizzatrice europea dell’epoca. Catherine MacKinnon, nota femminista radicale, scrisse che le donne sono state animalizzate e gli animali femminilizzati spesso allo stesso modo. Aveva assolutamente ragione. Pensate solo a questo episodio: nel 1792 Mary Wollstonecraft pubblicò un pamphlet dal titolo “La rivincita dei diritti delle donne”, cui un autore inglese rispose in un altro pamphlet intitolato “La rivendicazione dei diritti dei bruti” per dimostrare l’assurdità delle richieste delle donne e disse: “Se uno comincia su questo sentiero, prima o poi si riconosceranno anche i diritti agli animali”. Eccola, l’esclusione dell’altro e l’uso di immagini animali non umani per denigrare e disumanizzare il diverso.

Allora perché passare dall’obbligo di non trattare male gli animali al diritto degli animali? I diritti si fondano su degli interessi ed è piuttosto intuitivo dire che gli animali senzienti hanno interessi, quantomeno di non soffrire. Quindi il diritto degli animali non umani a non soffrire. La domanda che ci potremmo porre è: cosa cambia se comunque un pollo o un gatto non possono presentare le proprie istanze davanti ad un giudice?

Ci sono per la verità dei casi medievali incredibili. Uno studio del 1906 dimostrò che “the frequency with which pigs were brought to trial and adjudged to death, was owing, in a great measure, to the freedom with which they were permitted to run about the streets and to their immense number” e, citando un caso francese, riportò che “Another more mild-mannered (though no less impious) pig was hanged in France in 1394 “for having sacrilegiously eaten a consecrated wafer.” In tempi recenti ci sono stati dei tentativi di iniziare procedimenti sui diritti degli animali non umani davanti a corti domestiche e persino davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani Fondamentali, che nel 2008 ha respinto un ricorso ratione materiae con riferimento a delle scimmie di cui i ricorrenti invocavano la libertà dal confinamento negli zoo.

Vari tentativi di portare le istanze di animali non umani davanti alle corti possono essere citati, mi limiterò a due di questi:

1.Steven Wise, fondatore di Non-Human Rights Project, ha cercato di far riconoscere in giudizio i diritti degli scimpanzé. Nel dicembre 2013, ha tentato il riconoscimento dell’habeas corpus per Tommy, uno scimpanzé che era di “proprietà” di un privato e che viveva in una gabbia di metallo. L’avvocato ha argomentato che questo e altri due scimpanzé che erano usati per esperimenti all’università avevano diritti e che dovevano essere trasferiti in un rifugio in Florida dal titolo Save the chimps. La personalità giuridica è stata negata a Tommy dalla New York Supreme Court. Nel caso degli altri due scimpanzé, Hercules e Leo, la giudice si disse vincolata dal precedente, quello di Tommy, ma ha argomentato nel senso che estendere i diritti agli scimpanzé era legittimo. “Un giorno potrebbero farcela – ha detto invocando i diritti così difficilmente conquistati degli schiavi afro-americani e delle donne. Nonostante l’esito dei ricorsi, le pressioni pubbliche sono state tali che tutti gli scimpanzé sono stati trasferiti al santuario.

2.Il caso delle orche di Sea World a San Diego. PETA, la nota associazione ambientalista, ha presentato un ricorso per violazione del divieto di schiavitù, che è stato respinto dal giudice Miller della US District court for Southern California. Ha argomentato come segue: The only possible interpretation of the 13. Amendments is that it is applicable to persons, not to non-persons such as orcas.

Possono essere citati anche casi in India davanti alla Corte Suprema, che ha applicato l’art. 21 della Costituzione indiana, affermando che l’addomesticare i tori con il maltrattamento è contrario al diritto costituzionale di vivere un’atmosfera salutare e pulita, di non essere picchiato, calciato, torturato e ricoperto di alcol.

Quali sarebbero dunque i benefici di considerare dei diritti animali? Secondo Anne Peters, la questione non è tanto quella del se gli animali non umani meritino diritti, quanto piuttosto del considerare cosa possa significare dire che un allevatore europeo ha l’obbligo di tenere delle gabbie per polli di 740 centimetri quadrati come minimo per pollo o che un pollo ha diritto o è titolare di una certa gabbia avente determinate misure. L’aspetto pratico della concessione dei diritti è la loro giustiziabilità. Alcuni potrebbero argomentare – ne sono certa – che ciò è assolutamente superfluo; tuttavia la giustiziabilità non significa necessariamente sedere al banco davanti ai Giudici. Andrebbe distinto dunque l’avere il diritto dalla questione del come e in quale sede, in quale foro, farlo valere; ciò ha sicuramente un effetto di empowering, nel senso che la posizione fisica degli animali non umani (contro l’essere uccisi ad esempio) è rafforzata; e che l’idea dei loro diritti può essere utilizzata per combattere a loro nome. Si otterrebbe dunque maggiore protezione dal riconoscimento di diritti. La differenza nell’avere un diritto consiste anche nel sapere che le restrizioni a questo diritto devono essere giustificate e devono essere proporzionali. Se si riconosce, dice Anne Peters, un diritto dei polli alla libertà di movimento, questo significa che i centimetri del loro spazio vitale non sono definiti e che a seconda della situazione, l’obbligo di rispettare questo diritto può cambiare.  Per queste ragioni, poiché avere diritti implica un obbligo di giustificare la loro limitazione, poiché il peso cambia in un bilanciamento di interessi, vista l’indeterminatezza degli obblighi che discendono da diritti, i diritti offrono una protezione maggiore che la semplice affermazione di obblighi concreti e selettivi da affidare agli animali nel quadro dell’animal welfare non può garantire.

Negli anni Novanta uno studioso statunitense di diritto internazionale, Anthony D’Amato, aveva ricostruito un diritto emergente alla vita dei cetacei analizzando la prassi internazionale in materia di regolamentazione della caccia alle balene. Egli era convinto che se la moratoria alla caccia alle balene per scopi commerciali fosse diventata permanente, questa avrebbe determinato l’affermazione di un diritto alla vita delle balene.

Ecco allora che quella che David Boyd chiama “rivoluzione giuridica” non può prescindere da osservazioni che riguardano i diritti della natura, perché vi è un’interdipendenza inevitabile tra le specie animali e le specie con l’ambiente, e anche se volessimo essere egoisti e puramente antropocentrici potremmo dire che il nostro diritto a un ambiente sano dipende indissolubilmente dai diritti della natura e degli animali non umani. Secondo Boyd, la rivoluzione giuridica che lui propone si fonda su tre elementi: ridurre la sofferenza degli animali senzienti, fermare l’estinzione causata dall’uomo, proteggere i sistemi di supporto della vita del pianeta. Per fare si avverte la necessità di nuovi diritti e responsabilità. Ci sono prove che nel mondo leggi e corti riconoscono e proteggono i diritti di altri membri della comunità umana e non umana; vi sono leggi che proteggono gli ominidi, i cetacei, ci sono ricorsi per proteggere i diritti degli animali non umani e c’è un principio, quello di precauzione, che se meglio utilizzato dalle Corti – perché molte volte viene relegato a un principio che è nulla, praticamente – dicevo, invece di essere il vago principio di diritto internazionale che va bene in ogni situazione, la precauzione ha il potenziale di proteggere gli animali non umani. Basti solo pensare che nel 2010 l’Unione Europea ha posto dei limiti stringenti agli esperimenti di ricerca sugli octopus, in quanto vi sono prove scientifiche della loro abilità a sperimentare il dolore, la sofferenza e il danno duraturo. Quello che si vorrebbe stimolare è una riforma normativa a livello internazionale e regionale. Il diritto internazionale non è ancora attrezzato per questo, siamo lontani da quella che Anne Peters chiama global animal law, ma ha dei principi e dei diritti quanto meno umani, incluso il diritto umano a un ambiente sano, che al momento attuale mi pare sia assolutamente un nonsense se non lo consideriamo nel quadro più ampio del noi, noi inteso come umani, non umani, ambiente. Il quesito è ancora più forte e drammatico: con la crisi della biodiversità a livello internazionale, con specie estinte e migliaia in pericolo, hanno queste specie il diritto di sopravvivere? E noi umani non abbiamo forse delle responsabilità, non solo nei confronti del pianeta e delle sue specie, ma anche in modo egoistico e specista, se vogliamo, ma se serve per proteggere tutte le specie animali mi sembra si possa accettare, per le generazioni future? Grazie. 

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