L’inizio di un nuovo anno è una buona occasione per fare il punto su quello che è stato fatto ma soprattutto su quello che si dovrà (ancora) fare nel campo del diritto e tutela degli animali.
Una riflessione che non può prescindere dalla consapevolezza che ancora oggi la questione animale è destinataria di attenzione nella misura in cui non sono minacciati gli interessi umani. Dubitare di tanto significherebbe essere affetti da grave e voluta miopia. Averne consapevolezza contribuisce a individuare strade che un giorno potranno forse incontrarsi o quantomeno non rimanere pericolosamente parallele. Viviamo in una società che da sempre ha considerato l’essere umano quale unico essere vivente degno di rispetto. Che ancora resta stupita se il cane di famiglia (ma esiste il cane di famiglia?) magari tenuto alla catena per la più parte della giornata morde mortalmente una bambina di pochi anni “occasionalmente” avvicinatasi all’animale stesso. Che si stupisce se la signora Licia Colò libera nel mare alcuni crostacei, non capendone il senso e soprattutto ignorando che vi sono state pronunce giurisprudenziali (purtroppo contrastanti) che hanno parlato di maltrattamento anche se si trattava “solo” di aragoste. Ogni giorno incrociamo, senza vederli, camion carichi di cadaveri che vengono scaricati nei vari supermercati. Discutiamo per 10 euro all’anno in più di sacchetti bio e ci indignamo se a Roma stanno elaborando un regolamento comunale di grande civiltà per il benessere degli animai che ponga fine alle botticelle di Sordiana memoria. Quel benessere degli animali che verosimilmente non viene rispettato autorizzando il bagno coi delfini nei parchi acquatici. Un provvedimento del ministro dell’Ambiente, di concerto col ministro della Salute e con il ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali del quale davvero non se ne avvertiva il bisogno
(si noti come la materia sia pericolosamente spalmata tra diversi ministeri a dimostrazione della incertezza che regna nella definizione giuridica degli animali).
Premesso che le risposte giuridiche sono sempre tardive rispetto alle scoperte scientifiche, sono convinto che proprio grazie al contributo della scienza e alle battaglie civili che le associazioni animaliste conducono da anni, le abitudini e il modo di pensare delle persone con il tempo si modificheranno. Ne resteranno inevitabilmente influenzati gli orientamenti commerciali delle aziende e il mondo politico farà sue queste nuove tendenze. Solo allora il legislatore emanerà sua sponte provvedimenti di favore per la tutela e il benessere animale. Perché ciò accada sarà allora molto più utile individuare più punti di contatto (che di scontro) con chi ancora fatica a condividere l’idea che gli animali possano provare gioia, dolore, malessere, simpatia e antipatia e siano addirittura capaci di fare modesti ragionamenti non comportandosi come l’asino di Buridano. Sono altresì convinto che una vera cultura animalista nel senso più nobile del termine e che dunque conduca a rivedere o riconsiderare in modo diverso e rispettoso il rapporto uomo-animale non possa che trovare germe all’interno delle scuole dove, oggi, si perde tempo a discutere faziosamente circa l’utilità o meno dei progetti alternanza scuola-lavoro che potrebbero invece utilmete coinvolgere strutture, associazioni, enti che si occupano di animali.
Nell’ambito dell’Unione Europea e secondo le indicazioni che si possono trarre dalle pronunce della Corte di Giustizia, il benessere animale parrebbe (ancora) finalizzato alla tutela del mercato interno e della salute umana, nei confronti dei quali continua ad avere una valenza strumentale pur in presenza del venerato art. 13 del Trattato di Lisbona e della piattaforma per il benessere animale.
Quanto al nostro ordinamento giuridico verrebbe da dire “Le leggi son ma chi pon mano ad esse” posto che alcuna giurisprudenza recepisce senza mezzi termini il diverso sentire del consesso sociale creando una distanza siderale con quella stessa giurisprudenza che, solo nel 2008, ebbe a definire le questioni relative agli animali mere questioni bagatellari non ritenendo il rapporto uomo- animale degno di copertura costituzionale.
Il nostro legislatore è sempre prudente, oserei dire stitico, nel registrare questi mutamenti in favore degli animali. Questo costringe l’interprete a valutare con necessario disincanto la reale portata e il concreto spessore di tali aperture di credito diffidando da quelli che potrebbero essere solo falsi positivi del diritto animale. E non potrebbe essere altrimenti posto che la tanto osannata senzienza è ancora sconosciuta al nostro legislatore come anche alla nostra carta costituzionale. Anzi, per alcuni il suo riconoscimento costituirebbe una vera e propria stravaganza giuridica. E invece di stravagante (nella sua accezione migliore) vi è solo la giurisprudenza che, come ricordato, ci regala interpretazioni diacroniche e maggiormente aderenti ad una società che sta evolvendo sicuramente verso una visione più vicina all’animalismo di quanto lo era almeno 20 anni fa. Pensiamo al danno per la perdita dell’animale d’affezione, alla nuova concezione penalistica per cui l’animale è il bene giuridico tutelato e non l’oggetto del reato, alla assegnazione dell’animale domestico a questo o quel coniuge o compagno/a in occasione della fine della loro unione. Alle pronunce in tema di responsabilità veterinaria con una diversa qualificazione e quantificazione del danno provocato dalla eventuale malpratica medica. Alla responsabilità contrattuale nella vendita di animali, dove alcuni “operatori del diritto” sono ancora incerti se applicare la normativa codicistica o quella di cui al codice del consumo così invocando la “sostituzione del cane malato”.
Ma esistono condizioni irrimediabilmente ostative al riconoscimento della soggettività animale e che dunque gli animali siano titolari di diritti soggettivi al pari degli esseri umani? Si, nella misura in cui una applicazione integrale della soggettività comporterebbe la negazione di caccia, macellazione, pesca, vivisezione, attività circense, giardini zoologici. No se immaginiamo le conseguenze che si riverbererebbero in danno degli animali nella perdurante colpevole sua negazione. Solo la titolarità di un riconosciuto diritto soggettivo può avere come risposta dell’ordinamento una efficacia sua tutela. Una cosa è affermare che gli animali non possono essere trattati con crudeltà e altra cosa è affermare che gli animali hanno diritto a non essere trattati con crudeltà. E’ peraltro evidente -per buona pace degli accaniti detrattori della soggettività in capo agli animali- che solo quei diritti espressione di interessi primari degli animali assurgeranno a diritti soggettivi. E tra questi il diritto alla vita (inteso non come diritto assoluto posto che in alcune circostanze dalla stessa legge previste -art. 19 ter ex legge 189 /2004- potrà essere disatteso), il diritto alla non sofferenza in vita e il diritto ad una morte dignitosa.
Riconoscere oltre ad una protezione anche una dignità in favore degli animali, sia a livello di codice civile che a livello costituzionale, non determinerà ipso facto la risoluzione di ogni problema — come non lo è stato in quei paesi che già hanno avuto il coraggio di formalizzare questa soggettività — ma potrà essere importante nella maniera in cui si potrà, un giorno, arrivare a immaginare un diritto di scelta tra essere carnivoro, vegano o vegetariano; avere un diritto di potere mangiare vegano o vegetariano nelle scuole, nelle mense; ad avere regole davvero osservate a tutela della macellazione (telecamere o non telecamere); ad avere una seria disciplina delle attività di intrattenimento degli animali; a modificare, rendendole più efficaci, le norme sul maltrattamento degli animali; a pensare ad una medicina veterinaria convenzionata e a costi dei farmaci veterinari in linea con quelli umani.
In Parlamento vi sono innumerevoli progetti di legge che complessivamente considerati tendono ad affermare proprio quei “desiderata” di cui ho appena fatto cenno ma, come ha autorevolmente sottolineato la Prof. Avv. Francesca Rescigno (Università di Bologna) in occasione dell’audizione resa il 30 novembre 2017 innanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati concernente diversi Progetti di legge in materia di tutela degli animali (in campo civile, penale e di procedura penale), progetti però ancora orfani di quel riconoscimento a rango di fonte primaria e/o di rango costituzionale di cui prima detto.
E così gli uccellini migratori ancora oggi attendono di sapere se possono continuare a volare liberi o con la paura di finire all’interno di una gabbietta per prepararsi a canticchiare all’apertura della stagione venatoria, ingannando, senza colpa, altri loro simili che incontreranno così la morte. Questo perché il legislatore (Legge 29 luglio 2015, n. 115) si è limitato a dare ai cacciatori la possibilità di utilizzazione gli animali vivi come richiami nell’attività venatoria se provenienti da allevamento, lasciando pericolosi spazi di interpretazione sull’uso delle reti utilizzate per la cattura. Quello che importava, all’epoca della sua emanazione, non era la tutela degli uccellini bensì evitare la sanzione minacciata dalla comunità europea per avere disatteso una antica direttiva. Auguriamoci allora che la proposta di legge n. 1502 del 7 agosto 2013 conduca all’eliminazione totale di qualsiasi uso di qualsiasi richiamo vivo, anche al di là della disciplina europea.
L’affermata impignorabilità degli animali rappresenta (unitamente all’introduzione dell’articolo 189 del codice della strada, al comma 9 bis che ha introdotto la previsione dell’omissione di soccorso verso gli animali investiti) indubbiamente uno sviluppo positivo verso l’affermazione dei diritti degli animali ma a ben guardare il valore di tale traguardo viene inficiato — e non poco sotto il profilo pratico — laddove riferita solo agli animali domestici, di famiglia. Per quelli da reddito o per quelli d’affezione con fine riproduttivo (e la cosa non è di poco conto), il legislatore non ha inteso fissare alcun limite alla pignorabilità prevalendo sempre la loro qualificazione di “res”.
Ancora si festeggia per l’ormai già antica norma che ha decretato la libera circolazione degli animali domestici all’interno dei condomini. Peccato che alcune bizzarre interpretazioni della norma (l’art. 1138 ultimo comma del codice civile) condurrebbero a intendere gli animali prigionieri dei singoli appartamenti con esclusione di accesso alle parti comuni. Parrebbe infatti che ogni giorno all’interno delle realtà condominiali si contraggano un numero impressionante di allergie indotte dal pelo del cane o del gatto, come anche dermatiti da contatto per l’uso promiscuo delle scale o dell’ascensore. Non risulterebbe invece pervenuta l’inciviltà e maleducazione dei condomini, possessori o meno di animali domestici e non pare vi siano progetti di legge a tanto dedicati.
Battute a parte, l’introduzione dell’art. 1138 è la (ulteriore) conferma di un legislatore indeciso, eufemisticamente parlando. Dalla scelta della locuzione animali domestici, intendendosi verosimilmente animali ragionevolmente e normalmente detenuti all’interno di una appartamento condominiale per proseguire poi via via in una serie di infinite diatribe interpretative di non facile soluzione nelle quali noi avvocati siamo (ancora) coinvolti: l’art. 1138 cc si applica anche ai regolamenti antecedenti alla riforma condominiale? quanti animali si possono detenere all’interno di una appartamento? è ammissibile una delibera approvata all’unanimità che annulli quanto dispone il 1138 ultimo comma? La disposizione vale anche per le locazioni? È possibile predisporre delle protezioni per evitare che il gattone spicchi il volo dal balcone di casa? A ciò si aggiunga l’affascinante tema della responsabilità di cui all’art. 2052 del codice civile in ambito condominiale, quello del disturbo della quiete pubblica sempre all’interno e fuori dall’ambito condominiale (quando non sfocia in maltrattamento) per terminare con le immissioni moleste, soprattutto ora che è la Cassazione ha riconosciuto la molestia olfattiva. Dunque nulla è stato definitivamente risolto, come era peraltro prevedibile.
E dunque grande lavoro per gli interpreti. Ritengo, e credo di essere in buona compagnia anche se non mancano voci autorevoli contrarie, che l’art. 1138 cc valga anche per i regolamenti contrattuali antecedenti alla riforma facendo cadere ogni limite e divieto alla coabitazione con gli animali domestici all’interno del condominio; se così non fosse verrebbe inficiata la stessa ratio della norma anche sotto un profilo pratico di sua attuazione. In considerazione del rilievo che il legislatore ha voluto riconoscere al rapporto affettivo con gli animali d’affezione, si potrebbe sostenere che l’art. 1138 cc ultimo comma possa essere riferito anche alle ipotesi locative. A ben vedere, come sostiene alcuna critica, l’art. 1322 del codice civile afferma che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto purché esso sia indirizzato a realizzare interessi meritevoli di tutela quale è oggi il diritto di sviluppare un rapporto affettivo con un pet. Quanto alla deroga all’art. 1138 cc attraverso una delibera assunta all’unanimità a mio modo di vedere dovrebbero prevalere gli stessi motivi di cui detto in tema di locazione così escludendosi tale possibilità. Nulla dice il legislatore circa i numero di animali che si possono detenere all’interno di un appartamento soccorrendo qui regole etologiche e di igiene tanto che il regolamenti comunali possono indicare dei limiti in tale senso. Segnalo che il Garante per i diritti degli animali del Comune di Bergamo è riuscita a fare introdurre all’interno del Regolamento di tutela animali una limitazione (da 10 a 5) del numero dei cani che si possono detenere all’interno di una abitazione (diversamente scatterebbe il reato di maltrattamento).
Un tema importante è quello dell’affidamento degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi o dei conviventi. E’ ancora imbarazzante ascoltare argomentazioni secondo le quali è fatto decisivo per l’individuazione dell’affidatario (del cane) l’iscrizione all’anagrafe canina quando già una antica pronuncia della Pretura di Rovereto (1991) aveva osservato come la registrazione del cane presso l’anagrafe canina non fosse decisiva allo scopo di individuare il titolare di un diritto reale sul cane stesso. Titolo che si ricava invece sulla base di indici di natura concreta che evidenziano l’esercizio da parte di una o più persone di un potere di governo e delle correlative cure. Dunque ritengo di non esagerare affermando che l’iscrizione all’anagrafe canina possa considerarsi un’attestazione anche del diritto di proprietà non costituendone un titolo assolutamente inopponibile.
Più o meno recenti pronunce giurisprudenziali in tema di mantenimento e assegnazione dell’animale d’affezione hanno fatto pedissequa applicazione delle disposizioni previste nel caso di affidamento dei figli ma personalmente non credo che tali pronunce dimostrino che il nostro sistema giuridico sia pronto ad estendere la categoria dei diritti soggettivi oltre la specie. La giurisprudenza si sforza di rendere sempre più congruenti le norme concrete ai diversi aspetti del mutato rapporto uomo- animale – ma considerato nel suo complesso l’ordinamento giuridico rimane sempre e comunque sbilanciato verso un’attenzione a quelle che sono le conseguenze di una determinata situazione sull’essere umano piuttosto che sull’animale. Lo è sicuramente nel diritto amministrativo, meno nel diritto penale; nel diritto civile vi sono evidenti segnali confortanti. Come quello che ci viene dalla nona sezione civile del tribunale di Milano avendo essa affermato, con decreto del 13 marzo 2013, il principio per cui l’animale non può più essere collocato nell’area semantica concettuale delle “cose” ex articolo 923 del codice civile dovendo essere riconosciuto come “essere senziente”, vale a dire come soggetto non umano capace di avere sensazioni ed esperienze. Ma già nel 2007 la Corte di Cassazione penale (sentenza n. 21805) aveva affermato che l’animale condotto al seguito o trasportato in autovettura richiede la stessa attenzione e diligenza che normalmente si usa verso un minore. E dunque, mi chiedo, come si può ipotizzare che nel caso di separazione o divorzio vi possa avere altra e diversa interpretazione? Occorrerebbe chiederlo al Tribunale di Como che nel febbraio 2016 pur omologando o un accordo di separazione consensuale collocando il cane stabilmente presso la moglie (ancorchè questa non ne risultasse proprietaria all’anagrafe canina), con regolamentazione del diritto di visita in favore del marito e mantenendo la responsabilità del cane gravante in egual misura su entrambi i coniugi, ha bacchettato gli avvocati parlando di caduta di stile per avere utilizzato loro clausole che vengono adottate quando ci sono figli minori. Invero il Tribunale di Como si è limitato a dire dice che oggi non funziona così, anche se non esclude, stante la fantasia del legislatore, che domani si possa fare. L’eufemismo utilizzato dal Tribunale di Como parlando di fantasia del legislatore e alludendo verosimilmente all’art. 455 ter c.c. (che ancora riposa tra i tanti progetti di legge abortiti) rappresenta la dimostrazione più evidente di quale sia il pregiudizio che discende dal mancato riconoscimento formale della soggettività animale.
Vero è che con particolare riferimento al tema dell’affidamento degli animali familiari in caso di separazione dei coniugi o dei conviventi personalmente registro due derive pericolose. Una riguarda un potenziale uso del tutto distorto di tale strumento che invero in alcune occasioni potrebbe disvelare solo e semplicemente una non accettazione da parte di uno dei due coniugi o conviventi della fine della relazione, divenendo l’animale un’ottima scusa per rimanere attaccati a quella relazione. L’altra riguarda una pericolosa ed eccessiva umanizzazione dell’animale, proprio quando si rivendica un provvedimento nell’esclusiva tutela del benessere dell’animale conteso. Ci siamo mai domandati quale sia questo maggiore benessere? E il mio pensiero torna, senza averne risposta, alla provocazione del Tribunale di Como per avere utilizzato clausole che vengono adottate quando ci sono figli minori.
Su tali tematiche di assoluto interesse segnalo il prezioso contributo offerto da due articoli davvero illuminanti a firma della Prof. Avv. Margherita Pittalis (Università di Bologna): Pittalis, Margherita, Cessazione della convivenza more uxorio e affidamento condiviso dell’animale “familiare”, «FAMIGLIA E DIRITTO», 2017, 5, pp. 462 – 476; Pittalis, Margherita, Separazione personale tra coniugi e “affido” dell’animale di affezione, «FAMIGLIA E DIRITTO», 2016, 12, pp. 1163 – 1173.
Si va sempre oltremodo fieri delle norme penali introdotte nel lontanissimo 2004. La legge in questione è stata una indubbia conquista di civiltà giuridica, pur rappresentando a mio modesto e personalissimo avviso una legge manifesto avendo affermato un principio e perseguito invece altro e diverso scopo. Nel rimandare ad altra prossima occasione una disamina di tale problema, mi limito ad una provocazione rievocando quanto afferma un autorevolissimo studioso, il Prof. Luigi Lombardi Vallauri che si domanda e domanda se sia eccessivo allora parlare di razzismo animale. Aggiungo che qualora fosse ritenuta eccessiva tale affermazione (e personalmente non lo credo) dobbiamo comunque condividere l’idea che esiste — come diceva il compianto dott. Santoloci — una scriminante per maltrattament pre-agonici parlando di vendita di animali vivi.
We are going to cuddle now, and you are going to like it.
A post shared by Esther The Wonder Pig (@estherthewonderpig) on
Auguriamoci allora che come prima cosa che il nuovo Parlamento modifichi il nome alla legge n. 189 del 2004. Da “delitti contro il sentimento per gli animali” a “dei delitti contro gli esseri animali”. Non sarebbe una semplice questione lessicale o di definizione. E auguriamoci altresì che vadano in porto quei progetti di legge che vorrebbero inasprire tali fattispecie delittuose, posto che nella realtà quotidiana e alla luce di un incremento di simili reati, la risposta sanzionatoria appare debole. Non desti ribrezzo o senso di incredulità in alcuno il fatto che il compimento di atti sessuali con animali da parte di esseri umani (zooerastia) costituisca pratica alquanto diffusa e che questa devianza rientri sic et sempliciter nell’ambito del reato di “maltrattamenti su animali” non costituendo autonoma previsione. E’dunque auspicabile che si rimedi a tale lacuna con una disposizione ad hoc.
Altra gravissima lacuna, che mi auguro trovi soluzione, come promesso dallo stesso esecutivo in fase di attuazione dello schema di decreto legislativo di riforma della Protezione Civile, è l’assoluta mancanza di una sezione dedicata agli animali. A tutti gli animali. Da compagnia e da reddito. Anche in questo caso non si tratta di una stravaganza animalista. Solo quella grave miopia di cui ho all’inizio paventato la diagnosi potrebbe non fare scorgere la gravità di tale mancanza. E ancora una volta non vi è chi non veda come un riconoscimento formale della soggettività in capo agli animali eliminerebbe ogni discrezionalità in occasione dell’attesa riforma normativa della Protezione Civile. E’ mai possibile che nel 2018 in un paese a forte rischio di calamità (sismiche o dovute ad alluvioni o altre nefaste manifestazioni della natura) ci si debba affidare ancora alla buona volontà di alcuni (le associazioni animaliste; singoli e autonomi volontari)?