La notizia è di quelle belle. Rimbalza velocemente da tra i social e le televisioni. È una corsa a raccontarla, divulgarla. In alcuni casi a prendersene il merito, soprattutto quello politico.
Il Ministro Speranza ha parlato di provvedimento di equità atteso da anni da milioni di cittadini che convivono con un animale d’affezione e che farà risparmiare loro molti denari. Questo perché finalmente il medico veterinario sarà libero di prescrivere il farmaco ad uso umano invece che quello ad uso veterinario se, quest’ultimo, più costoso. Si attende solo la pubblicazione del decreto ma la sua sola emanazione ha legittimato plurime dichiarazioni di vittoria.
Credo sia doveroso indagare e individuare i reali contenuti di questa dichiarata vittoria. Fino ad oggi (anzi fino alla pubblicazione del decreto) al medico veterinario era fatto divieto di prescrivere farmaci ad uso umano che avessero lo stesso principio attivo di quello ad uso veterinario e un costo inferiore.
A seguito della pubblicazione del decreto il c.d. uso in deroga del farmaco umano da eccezione si sarebbe trasformato in regola poiché il veterinario potrà sempre sostituire al farmaco veterinario un farmaco ad uso umano avente lo stesso principio attivo ma un costo inferiore a quello ad uso veterinario.
Dunque la discriminante è il costo del farmaco mentre prima era l’assenza del farmaco veterinario. La norma che originerebbe tale “epocale” cambiamento di rotta è l’art. 10 bis del decreto legislativo n. 193/2006 come introdotta in occasione dell’ultima legge di bilancio. Vediamola:
Il Ministro della Salute, fermo restando il principio dell’uso prioritario dei medicinali veterinari per il trattamento delle affezioni delle specie animali e nel rispetto delle disposizioni dell’ordinamento dell’Unione europea in materia di medicinali veterinari, tenuto conto, altresì, della natura delle affezioni e del costo delle relative cure, definirà i casi in cui il veterinario potrà prescrivere per la cura dell’animale, non destinato alla produzione di alimenti, un medicinale per uso umano, a condizione che lo stesso abbia il medesimo principio attivo rispetto al medicinale veterinario previsto per il trattamento dell’affezione.
In assenza, come detto, del decreto, la stessa norma ora richiamata si presta a diverse interpretazioni e quella alla quale è stato dato massimo risalto è, a parere di chi scrive, una delle possibili interpretazioni.
Il principio dell’uso prioritario del farmaco veterinario
Avere usato l’aggettivo prioritario potrebbe significare che viene ribadita, quale opinione pacifica del mondo veterinario scientifico e clinico, l’idea secondo cui i farmaci ad uso umano pur avendo in comune diversi principi attivi con quelli ad uso veterinario possono presentare differenze sostanziali in termini di formulazione e concentrazione di questi stessi principi, di eccipienti e posologia.
Ritenere aprioristicamente che ciò che è efficace per l’uomo lo sia anche per l’animale potrebbe essere fuorviante.
Dunque un farmaco prodotto e pensato per un essere umano potrebbe essere altra cosa rispetto ad un farmaco pensato, studiato e sperimentato per gli animali.
A seconda della via di somministrazione, appetibilità ed assorbimento i farmaci veterinari sono studiati e documentati in maniera specifica per le specie per cui il farmaco viene registrato.
Ovviamente questo non esclude che un farmaco ad uso umano possa essere utilizzato per uso veterinario.
Ma individuare il discrimine (solo) nel minor prezzo del primo è forse operazione audace.
Il rispetto delle disposizioni dell’ordinamento dell’Unione europea in materia di medicinali veterinari
Curiosamente taciuta quella che è una imbarazzante aporia ovvero che il nuovo Regolamento Europeo (Reg UE 2019/6 ) — entrato in vigore il 27 gennaio 2019 e che dovrà essere applicato dal 28 gennaio 2022 – conferma il c.d. uso in deroga (o a cascata) del farmaco umano in luogo di quello veterinario. Peraltro, trattandosi di fonte normativa regolamentare non avrà bisogno di atti di recepimento all’interno dei vari ordinamenti. Dalla Commissione europea avrebbero fatto sapere, per tramite della Commissaria Kyriakides, che tutte le disposizioni vigenti e di prossima applicazione autorizzano solo “in via eccezionale” il trattamento di un animale con un medicinale ad uso umano.
Il decreto, considerate la natura delle affezioni e del costo delle relative cure, definirà i casi in cui il veterinario potrà prescrivere un medicinale per uso umano
Nell’ignoranza del decreto, la portata di questo appare “limitata” a indicare e definire esplicitamente tutti i casi in cui il veterinario potrà prescrivere il farmaco ad uso umano al posto del farmaco veterinario tenendo conto del principio di priorità di cui detto e delle disposizioni di cui al nuovo Regolamento Europeo. Si aggiungano ulteriori riflessioni.
Uno. Una circolare del Ministero della Salute (circolare n. 5727 del 29/03/2011) aveva già evidenziato i casi in cui il veterinario poteva ragionevolmente concludere per la non esistenza del farmaco adatto alla terapia da attuare così da accedere all’uso in deroga. Che sia sfuggito a chi si è affannato a introdurre l’art. 10 bis?
Due. Sempre il Ministero della Salute qualche anno fa aveva affermato che ogni principio attivo deve essere studiato sulla specie animale a cui è destinato, con indicazioni e posologie accuratamente sperimentate per ognuna di esse, tenuto conto dei diversi metabolismi e di conseguenza della differente farmacodinamica e farmacocinetica. Non valgono più queste indicazioni?
Tre. Se l’anomalia del sistema è rappresentata dall’elevato costo del farmaco veterinario e la “promessa” che viene fatta dal legislatore (o che viene così fatta recepire dalla collettività) è quella di assicurare un risparmio utilizzando il farmaco umano, tale risparmio lo si potrebbe conseguire sviluppando l’utilizzo del farmaco generico veterinario rendendolo individuabile per principio attivo e non, come avviene adesso, per nome di fantasia; riducendo i prezzi dei farmaci veterinari salva vita e di quelli per le terapie di lunga durata; rendendo i costi dei farmaci veterinari in linea con quelli umani; attuando una seria deducibilità delle spese veterinarie magari per ogni animale detenuto visto che non è infrequente che all’interno di una famiglia ve ne siano più di uno; eliminando l’iva sui farmaci e riducendo quella che si paga per le prestazioni veterinarie (che hanno pure una loro importanza tenendo conto che non esiste un servizio sanitario per la veterinaria), comprese quelle prestazioni che potremmo definire di rispetto della salute pubblica; riducendo i costi per la registrazione dei farmaci.
Quattro. Che prezzo ha questa auspicata riduzione di costi in termini di altri costi già spesi dallo Stato per tutelare negli anni la salute pubblica, combattere la antibiotico-resistenza, fare farmacosorveglianza? E’ fantasioso immaginare, anzi temere un meno controllabile (ab)uso di antibiotici? I venti anni trascorsi da quando i medici veterinari non potevano che utilizzare solo farmaci umani unici a loro disposizione vorranno dire qualcosa o vengono annullati con un sol decreto? In caso di reazioni avverse il veterinario ne dovrà rispondere? Si è considerato i rischio di un aumento della automedicazione o di possibili frodi a carico del servizio sanitario locale? Ci si è interrogati se un eventuale crollo dei farmaci veterinari possa indirettamente avere riflessi negativi sulla ricerca scientifica di nuovi farmaci. L’Europa mantiene l’uso in deroga così strizzando l’occhio alle case farmaceutiche (e non solo) o vi sono altre e più oggettive ragioni? Si è mai ipotizzato di intervenire sulla filiera della distribuzione del farmaco veterinario magari rendendola più snella?
Solo riflessioni certo. Ma la politica ancora una volta ha scelto la strada più facile. Quella sicura. Quella della promessa di esaudire una desiderata di tanti e cioè di credere di pagare di meno. Non importa se mortificando una categoria professionale, quella dei medici veterinari ritenuti burocrati esecutori. Una promessa facile dal momento che nessuno potrebbe opporsi a ciò che tutti desiderano e cioè spendere meno. E soprattutto che male c’è a riconoscere questa promessa?
Le promesse possono a volte nascondere delle insidie, soprattutto se sono il trionfo della retorica, enfatizzando una cosa per occultarne un’altra. In altre parole non viene detto cosa comporta quella promessa e le riflessioni appena svolte dovrebbero farci meditare. Sia chiaro, senza avere letto il decreto ogni mia parola potrebbe (forse) perdere di senso e significato. Esattamente come l’art. 13 del Trattato di Lisbona dedicato alla senzienza degli animali, peraltro già solennemente affermata dal Trattato di Amsterdam nel 1997. Non si spiega cosa sia la senzienza e quali siano i presupposti di essa. Si precisa solo che si tratta di una senzienza subordinata ad una serie di attività economiche umane nonché alle tradizioni e religioni di ciascun paese firmatario. Promessa e insidia.
Nessuno vuole negare l’importanza di permettere un risparmio a tante persone. Si riflette solo se quel risparmio e le modalità indicate per ottenere siano coerenti con un sistema che, a solo titolo di esempio, ancora tenta di disconoscere il danno non patrimoniale per la perdita dell’animale d’affezione. Anche in questo caso, facendo mie le parole pronunciate dal Ministro Speranza si tratterebbe di un provvedimento di equità. Equità che fatico a individuare nel nostro sistema normativo di diritto privato che ad oggi, in modo del tutto anacronistico prevede per controversie riferibili agli animali norme e principi relativi a ciò che un codice del 1942 ancora considera, ex art. 812 cc, beni mobili.
Chiudo citando Natalino Irti, eccelso giurista, che in un recente libro dedicato all’obbedienza alle leggi si interroga sul perché si debba obbedire e risponde dicendo che «non dubitano le coscienze o rese forti dalla fede o disciolte nel tepore dell’opinione comune».