Tra i rischi ambientali che destano maggiore allarme tra l’opinione pubblica e gli esponenti della comunità scientifica internazionale, quello connesso al cambiamento climatico è, senza ombra di dubbio, il più sentito.
Le informazioni e i dati scientifici di cui si dispone in merito sono oramai tantissimi ed accessibili a tutti, anche grazie ai social media, e ciò dà la possibilità a ciascun “cittadino del mondo” di prendere consapevolezza di un’emergenza che non riguarda questo o quello Stato, ma coinvolge tutti in egual misura, costituendo una minaccia seria, grave e soprattutto imminente per il futuro del nostro pianeta.
Il clima della Terra è naturalmente soggetto a variabilità climatica, a sua volta dipendente da fattori quali l’orbita terrestre, la radiazione solare, i fenomeni vulcanici e la circolazione degli oceani.
Studi di paleoclimatologia hanno infatti dimostrato che sin dalle ere preistoriche si verificavano sul nostro pianeta oscillazioni del clima. Ciò che contraddistingue l’attuale cambiamento climatico è però la natura antropica delle cause che lo determinano, eterogenee ma tutte strettamente connesse all’emissione dei gas serra nell’atmosfera.
L’effetto serra è un fenomeno di naturale regolazione della temperatura terrestre che si verifica grazie all’azione dell’atmosfera, la quale consente di non disperdere parte del calore proveniente dal Sole, rendendo possibile la vita sulla Terra.
Sino a che i gas ad affetto serra prodotti dall’uomo (anidride carbonica, metano, monossido di azoto) si sono mantenuti entro una soglia tale da non intaccare questo processo naturale, non vi è stato alcun rischio per il pianeta.
Negli ultimi anni, però, la percentuale di CO 2 presente nell’atmosfera ha raggiunto i valori più alti mai registrati, con una concentrazione che supera di ben il 40% quella registrata agli inizi dell’era industriale. L’attività umana correlata alla produzione dei gas serra è quasi sempre individuata, dagli esponenti della comunità scientifica, nei processi di combustione dei combustibili fossili come il petrolio, il carbone ed il gas naturale, utilizzati per laproduzione di energia elettrica, per i trasporti e per il settore industriale.
Un dato la cui importanza è invece spesso sottovalutata, non solo dall’opinione pubblica ma anche da una parte della comunità scientifica, è quello relativo all’impatto dell’industria zootecnica sul riscaldamento globale.
Secondo la FAO (Food and Agriculture Organization), gli allevamenti intensivi sono tra le prime cause del riscaldamento globale, essendo responsabili del 18% delle emissioni globali di gas serra, a fronte del 13,5% imputabile all’intero settore dei trasporti.
Ma qual è il nesso tra allevamento intensivo ed emissioni di gas serra?
Cominciamo col dire che gli animali allevati producono un enorme quantità di metano durante il loro processo digestivo e dunque, considerando che attualmente circa un terzo dell’intera superficie terrestre è destinata all’allevamento del bestiame, possiamo ben comprendere l’impatto del metano sull’atmosfera.
Eppure, se l’incidenza degli allevamenti sull’ambiente si limitasse al solo metano prodotto attraverso i processi digestivi degli animali, probabilmente l’industria zootecnica risulterebbe ancora sostenibile.
Bisogna invece considerare, per avere un quadro completo, un altro dato di importanza cruciale e cioè la stretta correlazione tra allevamento intensivo e deforestazione. Le foreste sono le più grandi alleate del clima, essendo in grado di immagazzinare CO 2 fino a un terzo delle emissioni totali, ma quando vengono bruciate rilasciano nell’atmosfera l’anidride carbonica accumulata nel corso di centinaia di anni; non è pertanto difficile immaginare quale possa essere l’impatto della deforestazione sul riscaldamento globale.
Ebbene, gran parte delle foreste presenti sul pianeta sono state abbattute per far posto ai pascoli e si stima che circa il 33% di tutto il terreno arabile del pianeta sia destinato alla coltivazione di foraggio. In America Latina, il 70% della ex foresta Amazzonica è oggi destinato al pascolo di animali, senza contare la percentuale di foresta convertita e destinata oggi alla produzione di soia e cereali per il bestiame.
Un noto rapporto del 2009, a firma di due consiglieri della Banca Mondiale, ha confermato il quadro appena evidenziato, riferendo che il comparto zootecnico sarebbe responsabile non già del 18%, ma addirittura del 51% delle emissioni totali di gas serra.
E questo dato, ancor più sconfortante, scaturisce proprio dal calcolo degli effetti della deforestazione e dello sfruttamento del suolo. Stando a questi numeri, l’allevamento del bestiame sembrerebbe essere la principale causa del riscaldamento del pianeta.
Senza contare le altre implicazioni ambientali dell’allevamento, quali il dispendio di risorse idriche (per ottenere un solo kg di carne occorrono 15.400 litri di acqua) l’inquinamento causato dalle deiezioni degli animali e il grave problema delle “zone morte” create dall’azoto sulla terra e negli oceani. «Il bestiame è tra i maggiori responsabili di alcuni tra i problemi più gravi con cui l’ambiente deve oggi fare i conti», si legge nel citato rapporto.
Da queste considerazioni e dai dati sopra evidenziati non si può che giungere alla conclusione che qualsiasi discussione onesta sul tema dei cambiamenti climatici non può prescindere dall’analisi dell’impatto che su di essi ha il settore zootecnico, e che tutte le misure che si possono attuare a favore del clima non sono sufficienti in assenza di un serio ripensamento di tale settore.
Oggi le aziende sono sempre più “green”, la politica è sempre più eco-friendly e noi consumatori/cittadini, ormai consapevoli dell’importanza del tema della sostenibilità, ci impegniamo ad attuare comportamenti virtuosi per il pianeta.
Così facciamo la raccolta differenziata, ci muoviamo in bicicletta, scegliamo prodotti a km zero e siamo pronti a sostituire lo spazzolino in plastica con quello in bamboo.
Eppure, nella maggior parte dei casi, ci risulta così difficile rinunciare al consumo della carne e dei derivati animali, sottovalutando, forse, l’impatto positivo, da ogni punto di vista, di una scelta alimentare differente.
Ma alla luce dei dati e delle informazioni di cui oggi disponiamo, possiamo ancora invocare la nostra “assoluta libertà di scegliere cosa (o chi!) mangiare”? Possiamo ancora ragionevolmente pensare che le nostre “scelte” non abbiano ripercussioni sul futuro del pianeta e dunque sulla nostra stessa vita?