Riconoscimento dei rifugi per animali “da reddito”: un primo passo, ma forse è prematuro festeggiare

Il manuale allegato al decreto del Ministero della Salute presenta delle criticità da superare affinché i santuari rivestano un reale ruolo di tutela per gli animali ospiti.

Pubblicato il 05/06/2023
Byrdyak/iStockphoto

Un riconoscimento giuridico per i rifugi di animali, affinché non siano più legati alla normativa sugli allevamenti e siano regolati da leggi dedicate che considerino il particolare status degli animali salvati da maltrattamento e macellazione: questo è uno degli obiettivi della nostra campagna Esseri senzienti, non oggetti che sembrava sempre più vicino alla realizzazione con la pubblicazione del recente decreto del Ministero della Salute del 7 marzo 2023.
Una attenta lettura del manuale allegato ci porta, però, a smorzare gli entusiasmi, rilevando come il decreto in oggetto presenti criticità assolutamente non accettabili in un’ottica di tutela e protezione di questi animali (e delle strutture operanti sul nostro territorio).

La condizione dei rifugi per animali

Prima della pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto del Ministero della Salute del 7 marzo 2023, non vi era una definizione ufficiale dei rifugi per animali allevati perché, di fatto, non vi era una normativa che ne certificasse l’esistenza e ne descrivesse le caratteristiche. Però, basandosi sulle esperienze italiane e internazionali, era possibile definire un rifugio per animali come una struttura gestita da un ente senza scopo di lucro che ospita principalmente animali appartenenti alle specie allevate per fini alimentari (mucche, galline, maiali, capre e le altre specie), che vengono solitamente salvati da maltrattamenti e/o macellazione e possono così trascorrere una vita che ne rispetti quanto più possibile le esigenze etologiche. Questi luoghi dovevano sottostare alla normativa sugli allevamenti, andando incontro spesso a situazioni complesse dal punto di vista giuridico. Un chiaro esempio è quello dell’emergenza legata all’epidemia di peste suina africana del 2022, che aveva portato all’ordine della ASL Roma 1 — poi annullato dal TAR del Lazio — di abbattimento dei suini della Sfattoria degli ultimi, un rifugio per animali della periferia romana.

Riconoscimento dei rifugi permanenti per animali: qualcosa non quadra

Al decreto del Ministero della Salute del 7 marzo 2023 è allegato il manuale operativo del sistema di Identificazione e registrazione (I&R) degli animali, che attua il decreto legislativo del 5 agosto 2022, n.134. In questo documento troviamo prima di tutto una definizione ufficiale dei rifugi per animali allevati:

«Rifugio permanente (c.d. santuario): attività di ricovero di bovini, equini, ovini e caprini, suini, cervidi e camelidi, pollame, conigli, api, animali delle specie di acquacoltura identificati e registrati con orientamento “rifugio permanente”».

Seppure questa definizione sembri convincere e costituire un buon punto di avvio verso una successiva regolamentazione ad hoc della gestione di queste strutture, bisogna tuttavia evidenziare la presenza di diverse criticità. Innanzitutto queste realtà, seppure riconosciute quali luoghi adibiti alla detenzione di animali non destinati alla produzione alimentare, verranno di fatto registrate come allevamenti. Secondo il manuale, infatti, l’operatore interessato alla loro registrazione dovrà chiederne l’iscrizione quali allevamenti, con orientamento “collezione faunistica” e indicazione dell’indirizzo di attività “rifugio per animali diverso da cani, gatti e furetti”.
Sono definite dal manuale operativo “collezione faunistica” quegli stabilimenti all’interno dei quali gli animali siano detenuti «con la finalità dell’esposizione o per la conservazione della specie o per motivi diversi dalle esibizioni, dagli usi zootecnici e dalla produzione di alimenti». Eppure, sorprendentemente, viene regolamentata la possibilità di destinare, su autorizzazione della ASL di competenza e in casi eccezionali, tali animali alla macellazione e alla trasformazione in alimenti destinati al consumo umano.
È evidente, quindi, come queste strutture continuino a essere considerate formalmente allevamenti, sebbene con orientamento diverso dagli usi zootecnici e dalla produzione di alimenti (che però non restano categoricamente esclusi).

Assimilare i rifugi agli allevamenti — con la conseguente applicazione della relativa normativa — è il principale problema che queste strutture hanno da sempre sofferto, come è stato rimarcato negli ultimi mesi a seguito delle note vicende di cronaca che hanno portato alla ribalta la questione del loro riconoscimento.

Che il decreto si ostini a mantenere questo orientamento addirittura avallandolo, trasponendolo in un atto ufficiale, vanifica gli sforzi che in questi mesi hanno unito associazioni e società per un cambio di rotta in grado di riconoscere l’animus dei rifugi, totalmente opposto a quello degli allevamenti.

Per quanto riguarda la già accennata previsione secondo la quale «la produzione di alimenti e la macellazione di animali detenuti in allevamenti con orientamento collezioni faunistiche è possibile» su autorizzazione eccezionale della ASL, è necessario mettere in evidenza che i rifugi nascono proprio allo scopo di sottrarre questi animali alla catena della produzione alimentare, impedendo che possano rientrarvi e ospitandoli fino al momento della loro morte. È impensabile che si possa anche solo prevedere l’ipotesi che questi animali possano essere sfruttati per la produzione alimentare o ancora peggio, essere macellati. Questo esula totalmente dalla natura dei rifugi, che come primo dictat prevedono proprio il divieto di tali pratiche all’interno delle loro strutture e in generale dello sfruttamento degli animali.

Un altro punto discutibile del documento è quello che prevede la limitazione della riproduzione degli animali negli allevamenti con orientamento collezione faunistica in modo da ridurre il sovrappopolamento degli stessi. La limitazione è una misura non sufficiente, considerando che una delle questioni centrali per i rifugi è proprio il divieto di riproduzione degli animali ospiti.

Inoltre si definisce il rifugio per animali diversi da cani, gatti e furetti come uno «stabilimento per il ricovero di animali terrestri selvatici e non, a scopo di riabilitazione o custodia di animali sequestrati, confiscati, rinvenuti sul territorio». Paiono quindi restare esclusi animali abbandonati o ceduti volontariamente alle strutture, che rappresentano una frazione importante degli ospiti di questi luoghi.

Oltre alle criticità esposte restano inoltre numerose questioni fumose o irrisolte, come il metodo di identificazione degli animali e i profili di biosicurezza. Davanti a tutto ciò che è stato esposto fin qui non si può certo cantar vittoria.

Quali saranno i prossimi passi?

Anche se questo decreto si configura come un primo passo avanti verso il riconoscimento dei rifugi per animali, il quadro che si evince da questo primo documento da un lato presenta delle criticità non accettabili alla luce del ruolo che i santuari dovrebbero rivestire in Italia — e già rivestono in altri Paesi europei come Austria e Spagna — dall’altro è alquanto lacunoso.
Noi di ALI proseguiremo con il nostro impegno su questo tema, tra le colonne portanti della nostra campagna Esseri senzienti, non oggetti. Auspichiamo un intervento del Ministero della Salute che possa fornire delucidazioni sui punti da noi riportati e confidiamo che i decreti attuativi vadano a completare e modificare le problematicità descritte. A tal fine chiederemo un incontro proprio con il Ministero per meglio esporre le nostre posizioni e sollecitare l’adozione di decreti attuativi che contengano i correttivi necessari.

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