“La rivoluzione nel piatto”, di Sabrina Giannini

La Giannini non fa sconti e resta diretta come è sempre stata nei suoi lunghi anni di denuncia giornalistica. Ed. Sperling & Kupfer, 204 pagine.
nickalbi / iStockphoto

Immaginate di percorre una strada, di notte. Buio pesto. Ricordate confusamente di averla già percorsa. Vi imponete prudenza, lo annusate ma non percepite esattamente dove e quale sia il pericolo. Non lo vedete. Improvvisamente un faro enorme si accende e illumina tutto. Quasi fosse giorno. I pericoli sono molti di più di quelli che credevate ci potessero essere. Vi si gela il sangue. Dove sono finito???

Avere letto l’ottimo libro di Sabrina Giannini ha evocato in me la medesima sensazione. Ipotizzavo talune sconcezze ma non pensavo potessero essere peggiori di quanto già orribili le immaginassi.

Sabrina Giannini non fa sconti. Va giù diretta, come diretta è stata nei suoi lunghi anni di denuncia giornalistica verso un mondo (quello dell’industria alimentare) dove la politica, come ci racconta, prima stringe le mani ai cittadini nei mercati e poi, dopo le elezioni, ai lobbisti nelle stanze dei bottoni, ma di nascosto. Il prezzo pagato per questo farisaico comportamento è avere (s)venduto il nostro orto e la nostra biodiversità. Così tradendo il primo e fondamentale principio etico e costituzionale che è la tutela della nostra salute. Ma la politica nulla avrebbe potuto se avesse incontrato un certo potere giudiziario non sempre calibrato come contrappeso impermeabile e indipendente.

L’analisi della Giannini è spietata. Non separa responsabilità nostrane da quelle europee. Entrambe virtuose in quello che l’autrice definisce “il passo del gambero”. Io più prosaicamente legge manifesto. Una normativa simbolica ed espressiva che serve se non viene applicata. Un gioco di specchi attraverso cui una società cerca di mostrarsi migliore di quanto effettivamente non sia. Una società piegata agli e dagli interessi economici delle multinazionali che riescono in quel gioco di illusione che forse non sarebbe riuscito neppure al grande Houdini: fare scomparire le differenze tra l’agricoltore che usa la chimica e quello che la rifiuta  rendendo non percepibili i rischi alla salute, direttamente riconducibili all’alimentazione.

Il viaggio che Sabrina Giannini fa fare al lettore conducendolo per mano tra i torbidi segreti e intrallazzi dell’industria alimentare — apprezzabile per cura dei particolari, dei riferimenti storici, normativi, delle fonti, senza mai sconfinare in una inutile e nauseabonda retorica o propaganda animalista e/o ambientalista — ha l’indubbio merito di imporre sempre al lettore un attimo di necessaria e religiosa riflessione. Sufficiente ad alzare lo sguardo dalle pagine per domandarsi se è mai possibile che tutto ciò che si descrive e si racconta possa accadere con la connivenza della politica. E del perché accada nonostante tutto appaia formalmente (e falsamente) teso a dare un significato a quella parola piena di nulla che è il benessere animale.

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Dovremmo chiederlo alle quasi settecentomila tonnellate di “controfigure” di salmoni che la Norvegia impiatta ogni anno sulle tavole di noi europei.  Verosimilmente arricchiti con etossichina, un conservante chiaccherato altrettanto verosimilmente contenuto nei mangimi riservati ai salmoni imprigionati in putride reti all’interno di vasche immerse nel freddo mare del nord.  La presenza di questo conservante non è rilevabile dai controlli. Non per dimenticanza o difficoltà di individuazione ma sol perché (volutamente) non prevista dai relativi regolamenti europei.

Non sorte migliore è riservata alle galline ovaiole anche se ci illudiamo, scrive la Giannini, che sia in atto un cambiamento epocale leggendo di allevamenti biologici, allevamenti a terra o all’aperto. Parole, parole, soltanto parole. Più semplicemente marketing quando solo volgare business, magari travestito da norma in favore di una certa produzione biologica ed estensiva. Accade però che i controllati paghino contributi non irrilevanti ai controllori per essere appunto controllati. Ci mancherebbe, pensare male è peccato. Ma dopo avere letto questo j’accuse è difficile non essere peccatori.

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