Sentenza shock del Tribunale di Roma: i crostacei tenuti vivi sul ghiaccio sarebbero alimenti e non animali

Secondo la pronuncia, astici, granchi, aragoste e altri crostacei decapodi esposti all’interno di un ristorante per la consumazione perderebbero ogni possibilità di tutela.
Crostacei su ghiaccio
ma-no/iStock

Oggi condividiamo con voi una vicenda protagonista di una delle battaglie che portiamo avanti ogni giorno: la difesa dei diritti degli animali, anche quelli più trascurati come i crostacei decapodi.

Lo scorso ottobre, il Tribunale di Roma ha assolto con formula piena un ristoratore imputato per il reato di maltrattamento di animali (art 544 ter c.p.) per aver esposto su ghiaccio, con le chele legate, otto granchi e due astici vivi destinati alla consumazione all’interno del proprio ristorante.

Abbiamo deciso di chiedere, con un’istanza motivata, al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma, di impugnare la sentenza di primo grado. Secondo il nostro parere le argomentazioni del Giudice sono errate ed il reato di maltrattamento è da considerare pienamente integrato o al massimo riqualificabile in quello di cui all’articolo 727 del codice penale che punisce chiunque detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.

Il ragionamento del Tribunale

Innanzitutto, secondo la decisione del Tribunale di Roma, i crostacei esposti su ghiaccio andrebbero considerati come alimenti e non più come animali ai sensi dell’art. 2, lettera b) del Regolamento (CE) n. 178/2002, in quanto animali vivi «preparati per l’immissione sul mercato ai fini del consumo umano». Questo li escluderebbe da qualsiasi genere di tutela riservata agli animali.

Come abbiamo già avuto modo di spiegare, questa interpretazione è fallace. Il regolamento CE 178/2002 esclude dalla definizione di alimento, e quindi dal proprio campo di applicazione, gli animali, a meno che non siano preparati per l’immissione sul mercato ai fini del consumo umano. Secondo il Regolamento (CE) n. 853/2004, che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale, i prodotti della pesca si considerano preparati quando siano stati sottoposti a una operazione che ne abbia modificato l’integrità anatomica, quali l’eviscerazione, la decapitazione, l’affettatura, la sfilettatura e la tritatura. Per questa ragione è da escludere che la sola esposizione degli animali sul letto del ghiaccio per la vendita al consumatore ne determini la qualificazione come alimenti e non più come animali, propendendo quindi per l’applicazione delle sole norme che definiscono la disciplina inerente la sicurezza degli alimenti. Se questa dovesse essere la conclusione, nessun animale che si trovi all’interno di un macello sarebbe meritevole di tutela, poiché preparato per l’immissione sul mercato. Il Tribunale, in caso di dubbio interpretativo, avrebbe dovuto, a nostro avviso, sollevare una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per chiedere quale sia la corretta interpretazione da darsi alle norme in questione, interpretazione che non può spingersi a negare la natura di “animale” in base alla fase della catena di distribuzione nella quale questo si trovi.

Inoltre, il comportamento del ristoratore è stato ritenuto necessario in quanto la detenzione sul ghiaccio abbasserebbe la carica batterica, salvaguardando la salute del consumatore e anestetizzando gli animali prima della soppressione. Nell’istanza avanzata alla Procura abbiamo chiarito che l’uso del ghiaccio per mantenere bassa la carica batterica è utile solamente per gli animali non più in vita, dato che essi non posseggono più un sistema immunitario che permetta loro di difendersi da agenti patogeni. La necessità dell’uso del ghiaccio per abbassare la carica batterica nei crostacei vivi si configura come un argomento fallace, che non tiene conto del sistema naturale di difesa contro agenti patogeni che appartiene a questi animali, senza il quale non sarebbero in grado di sopravvivere. La detenzione su ghiaccio dei crostacei vivi costituisce una pratica altamente innaturale per questi animali, non ne rispetta le necessità etologiche e fisiologiche, può essere causa di sofferenza e dolore e non garantisce che questi animali vengano anestetizzati e privati quindi della capacità di percepire dolore.

Secondo il Tribunale, poi, la condotta di tenere legate le chele dei crostacei sarebbe stata una misura preventiva a fronte dell’aggressività che avrebbero potuto mostrare gli animali in condizioni di cattività. Va precisato innanzitutto che questo comportamento è frutto della convivenza forzata di animali che in natura risultano estremamente solitari.  Sostenere che la legatura delle chele sia un mezzo utile a prevenire l’aggressività tra questi animali non tiene conto di misure alternative che potrebbero costituire un bilanciamento tra gli interessi del mercato e quelli imposti dalle esigenze etologiche degli animali.

La risposta della Procura Generale

La Procura Generale ha rigettato la nostra istanza facendo proprie le argomentazioni tecnico giuridiche del Tribunale. Riteniamo questa decisione non condivisibile e la nostra istanza pienamente fondata e motivata. Questa vicenda dimostra come i crostacei decapodi siano pienamente trascurati dalla legge e come sia fondamentale intervenire al fine di prevenire l’emissione di pronunce analoghe che neghino sostanzialmente il più semplice dato di realtà: i crostacei decapodi sono esseri senzienti, e il solo fatto che si trovino all’interno di una vetrina, pronti per essere uccisi e consumati, non può certo determinare che vengano considerati alimenti e non più animali.

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