Quello per la perdita dei propri animali d’affezione è un dolore senza diritti: grande è ancora, infatti, lo stigma legato alla percezione che la sofferenza provata per la loro morte non sia del tutto legittima.
«Non puoi starci così male…è solo un gatto!» – «Dai, dimmi veramente cosa c’è che non va…non può essere solo per il cane!»
Espressioni come queste, che spesso vengono rivolte a chi sta vivendo il lutto per il proprio amico animale, rivelano come il patimento provato per la sua morte non sia considerato meritevole di un riconoscimento pari a quello riservato alla scomparsa di una persona e consentono facilmente di capire come sia impossibile, per chi lo subisce, sentirsi adeguatamente sostenuto e compreso nella propria sofferenza.
Frasi che nessuno oserebbe mai rivolgere a chi ha perso un familiare od un amico umano, e che dunque, ancora una volta, rivelano il puro antropocentrismo del pensiero imperante: solo gli uomini possono soffrire e possono farlo solo per altri uomini.
La nostra società, così fortemente gerarchizzata, ha creato una gerarchia anche per la gravità dei lutti.
Gerarchia stabilita in base all’importanza che viene attribuita ad ogni relazione: pleonastico evidenziare come, in tale scala, il dolore per la perdita di un animale non trovi pressoché collocazione?
Eppure numerosi sono gli studi scientifici che hanno dimostrato come la rottura dei legami affettivi di attaccamento formatisi tra persone ed animali da compagnia provochi una profonda afflizione, del tutto assimilabile a quella provata per la scomparsa di una persona cara. Medesime sono anche le manifestazioni sul piano fisico ed emotivo nonché le fasi proprie di altre tipologie di lutto.
Differenti sono, invece, il riconoscimento della legittimità del dolore patito e la mancanza di veri e propri codici sociali che consentano di esprimerlo e superarlo. L’assenza di tale riconoscimento costringe chi soffre a farlo in silenzio e senza alcun supporto.
Il timore di essere derisi e giudicati è tale da impedire di esprimere liberamente il dolore per la propria perdita. La vergogna, il senso di imbarazzo, e l’isolamento nel patimento che ne deriva, si ripercuotono sul processo di elaborazione del lutto, rendendolo più lento e complesso; evidenze scientifiche hanno infatti dimostrato come, il supporto ed il conforto sociale, siano indispensabili per affrontare qualsiasi tipo di perdita. Sostegno che, come detto, in questi casi spesso manca ed induce chi la subisce a chiedersi se stia esagerando.
Ma come si può parlare di esagerazione di fronte ad un evento come la morte?
La vita è un dono preziosissimo, unico ed irripetibile, non solo per l’uomo. La perdita ed il dolore impongono rispetto, a prescindere da quale sia la specie di appartenenza di chi viene a mancare.
La morte è ineluttabile: non ci saranno altre occasioni per scambiarsi uno sguardo, un bacio, una carezza; essa ci priva di un rapporto insostituibile e non di una proprietà facilmente rimpiazzabile.
Ogni legame – non solo quelli intraspecifici – è unico ed irripetibile.
È dunque tempo di rivendicare il diritto di piangere la scomparsa di un animale senza dover provare imbarazzo od essere sminuiti o ridicolizzati, e di scardinare i cardini di una società che ci vuole forti a tutti costi, in cui nella logica della competizione e dell’individualismo, non c’è spazio per debolezze e sentimentalismi, tanto più se oggetto ne sono gli animali.
È altresì tempo di comprendere finalmente che, prendendo in prestito una celebre frase del medico ed antropologo statunitense Paul Farmer:
«l’idea che alcune vite valgano di meno è la radice di tutto ciò che c’è di sbagliato nel mondo»